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mardi, 03 novembre 2015

LE BLANC ET LE NOIR: un nouveau blog européen au meilleur sens du terme:

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LE BLANC ET LE NOIR: un nouveau blog européen au meilleur sens du terme:

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lundi, 02 novembre 2015

Baath, storia del partito che ha costruito la Siria

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Baath, storia del partito che ha costruito la Siria

Da Hafez a Bashar Al Assad, l'ultimo gruppo politico "panarabo" si è rinnovato pur conservando i suoi valori socialisti e patriottici, tradizionalisti e laici, anti-colonialsti e identitari.
 
 
Ex: http://www.linttelletualedissidente.it
 

In Medio Oriente, nell’universo politico di cultura laica, sono tante e spesso in conflitto tra loro, le personalità che si sono elevate al di sopra delle nazioni per incarnare l’ideale panarabo. Ahmed Ben Bella in Algeria, Gamal Abdel Nasser in Egitto, Saddam Hussein in Iraq, Muammar Gheddafi in Libia, Hafez Al Assad in Siria. Gli uomini passano, le idee restano. Di fronte ai grandi sconvolgimenti della regione, il più delle volte rimodellata dall’esterno, un solo gruppo politico è riuscito a conservarsi nel tempo e a mantenere viva la fiamma di un pensiero politico che ancora oggi appare profondamente attuale. È la storia del Baath, il partito che attualmente governa in Siria e che fa capo al presidente Bashar Al Assad.

Nato nel Rashid Coffee House di Damasco (divenuto successivamente il Centro Culturale Sovietico), dove ogni venerdì un gruppo di giovani studenti provenienti da tutto il Paese – comprese le piccole delegazioni di Giordania, Libano e Iraq – il Baath si riunisce intorno aMichel Aflaq (1910-1989) e Salah Al Bitar (1912-1980), due insegnanti damasceni, rispettivamente di confessione cristiana e islamica, che si erano conosciuti a Parigi quando frequentavano le aule universitarie della Sorbona. Il primo nucleo si costituisce negli anni Quaranta sulle note di Nietzsche, Marx e del romanticismo tedesco, ma l’ufficializzazione del partito si colloca nel 1947 dopo un incontro tra i vertici a Latakia in cui è raggiunto l’accordo sia sul programma politico che sul nome da dare allo schieramento nascente: Baath, ovvero, Partito della Resurrezione araba. Al congresso costitutivo la maggior parte dei delegati sono di estrazione borghese, principalmente notabili delle campagne, e di confessione drusa e alawita, anche se poi saranno sempre di più i cristiani e i sunniti che vi aderiranno.

baath33904400000.jpgCosì mentre si delinea lo scenario di una Guerra Fredda articolata sulla contrapposizione tra due blocchi, quello statunitense e quello sovietico, i teorici Aflaq e Al Bitar mirano a edificare un’ideologia esclusivamente araba che si smarca sia dal capitalismo imperialista che dal marxismo internazionalista e che allo stesso tempo riesca a conciliare laicità, tradizione islamica, socialismo e nazionalismo. Patrick Seale, giornalista irlandese e biografo di Hafez Al Assad scrive ne Il Leone di Damasco parafrasando la dottrina del partito: “La nazione araba, insegna Aflaq, è millenaria, eterna ed unica, risale all’inizio dei tempi e ha davanti a sé un ancor più luminoso futuro. Per liberarsi dall’arretratezza e dall’oppressione straniera, gli arabi devono avere fede nella loro nazione ed amarla senza riserve”.

Michel Aflaq formula così le parole di battaglia e le trasmette al popolo siriano durante le conferenze e tramite gli opuscoli distribuiti in tutto il Paese dai giovani militanti che si organizzano capillarmente in cellule e sezioni. Nel 1953 il Baath fallisce il primo tentativo di colpo di Stato, ma riesce a ramificarsi in tutti i Paesi della regione, principalmente in Iraq. E paradossalmente proprio in Iraq, nel 1963, riesce a conquistare il potere facendo cadere il regime di Abd al Karim Qaem, (il governo baathista durò pochi mesi per poi consolidarsi soltanto qualche anno dopo, nel luglio del 1968, con Ahmed Hasan Al Bakr), aprendo tuttavia la strada a un parallelo capovolgimento in Siria. Nello stesso anno il Baath siriano fu portato al potere dai militari e da essi ricevette il consenso per rimanervi. Fu intrapreso immediatamente un percorso per lo sviluppo del cosiddetto socialismo arabo, tentando di liquidare le basi economiche della vecchia élite ancora legate all’occupazione inglese e francese. Fu applicata la riforma agraria, furono nazionalizzate banche (1963), aziende commerciali e industriali (1965).

Mentre in Iraq, nel novembre del 1963, i militari posero fine al regime bathista, in Siria continuò, pur con tanti problemi interni. Inizialmente fu l’ideatore sunnita Al Bitar ad occupare il potere (1966), poi però fu estromesso dall’ala radicale del partito che decise di espellerlo dal Paese insieme all’altro ideatore Michel Aflaq, il quale si rifugiò in Iraq dove contribuì alla conquista dello Stato nel 1968 (questo esilio fu, oltre all’inimicizia personale tra Hafez Al Assad e Saddam Hussein, uno dei motivi della rottura tra il Baath siriano e quello iracheno). L’espulsione dei due padri fondatori consacrava un nuovo corso: il Baath siriano assunse un carattere più nazionale, se non più alawita, conservando l’ideale “panarabo” come strumento di legittimazione nell’intera regione. Ma la vera svolta avviene nel febbraio del 1971 quando i dirigenti del partito e l’ala militare affidarono il potere ad un uomo che si era fatto spazio nella classe politica, Hafez Al Assad, primo presidente alawita della storia siriana, che orientò immediatamente il Paese verso l’Unione Sovietica, attuò una politica economica di natura socialista e tutelò la laicità dello Stato. Pur dichiarandosi promotore della tradizione islamica nel Paese, tre dei suoi fedelissimi, Jubran Kurieyeh, Georges Jabbur ed Elyas Jibranerano, erano di religione cristiana.

Ma chi era il padre di Bashar? Il generale Hafez Al Assad (1930-2000), nacque a Qardaha, nell’area di Latakia, terzogenito di una famiglia alawita. Svolse i suoi studi primari nel suo villaggio, quelli secondari a Latakia, e nel 1946 si iscrisse al nascente partito Bath, facendosi notare nel 1951 per aver presieduto il congresso degli studenti. Più avanti si iscrisse alla scuola militare di Homs e, appena uscito nel 1955 con il grado di tenente, diventò pilota alla scuola aviatoria di Aleppo. Dopo una serie di vicissitudini interne al Baath e una serie di colpi di Stato falliti (1961, 1963 e 1966) in cui partecipò in prima persona, Hafez al Assad, che acquistò sempre più peso politico, entrò nella direzione del partito nel 1969 e assunse la carica di ministro della difesa nel maggio del 1969. Fu eletto presidente della Repubblica Araba Siriana nel 1970. Con sistemi a volte brutali – tra questi il bombardamento di Hama nel 1982 – riuscì a dare autorevolezza e dignità ad un Paese che in quegli anni era diventato probabilmente il più importante protagonista del Medio Oriente.Giulio Andreotti, che fu uno degli uomini più popolari in quella regione, rimase affascinato dall’omologo siriano. Le autorità sovietiche lo consideravano il miglior alleato nel mondo arabo. Bill Clinton dopo averlo incontrato nell’ottobre 1994 lo definì “duro ma leale”. Il giornalista irlandese Patrick Seale, morto l’anno scorso all’età di 84 anni, è stato il suo “biografo” occidentale. Nel suo libro pubblicato nel 1988, intitolato Il Leone di Damasco(Gamberetti editrice), ritrae fedelmente la figura di un uomo che nel bene e nel male, attraverso il figlio Bashar Al Assad, fa ancora parlare di sé e dell’ideale “panarabo”.

Articolo pubblicato su Il Giornale

Le président du Bundestag se rebiffe contre le traité transatlantique

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Le président du Bundestag se rebiffe contre le traité transatlantique

Norbert Lammert menace de dire NON au traité et fait les gros titres de toute la presse outre-Rhin.

Ex: http://www.bvoltaire.fr

Lorsque nous n’entendons plus parler du traité transatlantique en France (TAFTA), sauf par la présidente du FN et par Jean-Luc Mélenchon, pas très relayés par les médias, il faut bien le dire, en Allemagne, il en va tout autrement. C’est la nouvelle du jour ! Le président du Bundestag, Norbert Lammert, menace de dire NON au traité et fait les gros titres de toute la presse outre-Rhin. Tout cela parce qu’une délégation de parlementaires allemands avait récemment exigé, à l’ambassade américaine de Berlin, de consulter les documents des négociations. Ce qui leur a été refusé ! Pour le lecteur français, je souligne que Norbert Lammert est le numéro deux de l’État allemand.

Depuis plus de deux ans, l’Union européenne et les États-Unis d’Amérique négocient presque en catimini le nouveau traité transatlantique. La Commission européenne met à disposition beaucoup de documents, mais les détails sont réservés uniquement à quelques privilégiés. Norbert Lammert, le président du Bundestag, a désormais soumis sa décision à plus de transparence dans les négociations. « Il est hors de question que le Bundestag ratifie un contrat commercial entre l’Union européenne et les États-Unis, pour lequel il n’aura pu accompagner ou influencer les options », a déclaré le politicien CDU. Lammert serait tombé d’accord avec Juncker pour que les documents de négociation, en particulier leurs résultats, soient soumis à tous les États membres, à leurs gouvernements, mais aussi à leurs Parlements. « Et je serai intransigeant », a lancé le président du Bundestag. La France semble absente de ces revendications justifiées. Avec le ministre des Finances, Sigmar Gabriel (SPD), Norbert Lammert estime que l’actuel accès limité, au sein des ambassades américaines, est indiscutable, aussi bien au gouvernement qu’au Parlement.

Les négociations sur le traité transatlantique ont commencé en juillet 2013. Cette création d’une zone de libre-échange doit servir au développement économique entre les deux côtés de l’Atlantique, qui verrait l’abolition des douanes et autres obstacles au commerce. Des esprits critiques craignent néanmoins une érosion des droits sociaux, environnementaux, des consommateurs et, par-delà, un affaiblissement des institutions démocratiques. 250.000 personnes avaient manifesté à Berlin le 10 octobre dernier contre ce traité controversé.

Dernièrement, c’est la chancelière Angela Merkel qui avait promu le traité auprès du syndicat IG Metall. Notons que, sur cette question, comme sur celle de l’immigration massive, Merkel est en total décalage avec son peuple qui vient de se réveiller devant la folie migratoire de leur dirigeante. Elle semble de plus en plus isolée, qui menace aujourd’hui de faire capoter l’union entre la CDU et la CSU.

dimanche, 01 novembre 2015

Crise syrienne, paysage intellectuel français et «Grand Remplacement»

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Crise syrienne, paysage intellectuel français et «Grand Remplacement»

Entretien avec Robert Steuckers

Propos recueillis par Adriano Scianca pour « Primato nazionale »

1.     Que pensez-vous de la manière dont l'Europe a géré la crise de l'immigration suite à la crise syrienne?

L’Europe est inexistante en tant que puissance politique qui compte dans la région hautement stratégique qu’est le Levant. Elle n’a su ni impulser une politique de stabilité qui aurait joué dans son intérêt le plus légitime ni faire face aux catastrophes que l’intervention des Etats-Unis et de leurs alliés dans la région ont entraînées. Parmi ces catastrophes, la plus visible aujourd’hui en Europe, de la Grèce à l’Allemagne en passant par tous les pays des Balkans, est bien sûr cet afflux massif de réfugiés que les Etats européens ne sont pas capables d’intégrer à l’heure d’un certain ressac de l’économie européenne, perceptible même en Allemagne. L’intérêt de l’Europe aurait été de maintenir la stabilité au Levant et en Irak. C’était le point de vue du fameux « Axe Paris-Berlin-Moscou » qui s’était insurgé contre l’intervention de Bush en Irak en 2003. Les Etats-Unis, qui ne sont pas une puissance romaine au sens classique du terme et au sens où l’entendait Carl Schmitt, ne font donc pas comme Rome, ils n’apportent ni « pax romana » ni « pax americana » mais génèrent le chaos, auquel les populations essaient tout naturellement d’échapper, au bout d’une douzaine d’années voire d’un quart de siècle si l’on tient compte de la première intervention en Irak en 1990. Ces pays, jadis structurés selon les principes de l’idéologie baathiste (personnaliste, transconfessionnelle et étatiste), avaient le mérite de la stabilité et faisaient l’admiration d’un grand diplomate néerlandais, Nikolaos Van Dam, docteur en langue et civilisation arabes, qui a consacré un ouvrage en anglais à la Syrie baathiste qui mériterait bien d’être traduit en toutes les grandes langues d’Europe. Cette stabilité, maintenue parfois avec rudesse et sévérité, a été brisée : on a cassé la forme d’Etat qui finissait vaille que vaille par s’imposer dans une région, soulignait aussi Van Dam, marquée par le tribalisme et allergique à cette forme étatique et européenne de gestion des « res publicae ». L’Europe a fait du « suivisme », selon la formule d’un observateur flamand des relations internationales, le Prof. Rik Coolsaet. Elle a benoîtement acquiescé aux menées dangereuses et sciemment destructrices de Washington, puissance étrangère à l’espace européen et à l’espace du Levant et de la Méditerranée orientale. Elle paie donc aujourd’hui les pots cassés car elle est la voisine immédiate des régions où l’hegemon-ennemi a semé le chaos. Celui-ci cherche à éviter ce que j’appellerais la « perspective Marco Polo », la cohésion en marche des puissances d’Eurasie (Europe, Russie, Inde, Chine), par le truchement des télécommunications, des nouvelles voies maritimes et ferroviaires en construction ou en projet, du commerce, etc. Par voie de conséquence, l’hegemon hostile doit mener plusieurs actions destructrices, « chaotogènes » dans les régions les plus sensibles que les géopolitologues nomment les « gateway regions », soit les régions qui sont des « passages stratégiques » incontournables, permettant, s’ils sont dominés, de dynamiser de vastes espaces ou, s’ils sont neutralisés par des forces belligènes, par un chaos fabriqué, de juguler ces mêmes dynamismes potentiels. La Syrie et le Nord de l’Irak sont une de ces « gateway regions » et l’étaient déjà au moyen-âge car ce Levant, avec sa projection vers l’hinterland mésopotamien, donnait accès à l’une des routes de la soie, menant, via Bagdad, à l’Inde et la Chine. L’Ukraine est une autre de ces « gateway regions ». L’abcès de fixation du Donbass est un verrou sur la route du nord, celle empruntée, avant la première croisade d’Urbain II, par les Coumans turcs, tandis que leurs cousins seldjouks occupaient justement les points-clefs du Levant, dont on reparle aujourd’hui : cette tenaille turque, païenne au nord et musulmane au sud, barrait la route de la soie, la voie vers l’Inde et la Chine, enclavait l’Europe à l’Est et risquait de la provincialiser définitivement.

Par ailleurs, dans un avenir très proche, d’autres zones de turbulences pourront éclore autour de l’Afghanistan, non pacifié, dans le Sinkiang chinois, base de départ d’une récente vague d’attentats terroristes en Chine, en Transnistrie/Moldavie ou ailleurs. L’Europe, dans cette perspective, doit être cernée par des zones de turbulence ingérables, afin qu’elle ne puisse plus se projeter ni vers l’Afrique ni vers le Levant ni vers l’Asie centrale au-delà de l’Ukraine. L’Europe a la mémoire courte et ses établissements d’enseignement ne se souviennent plus ni de Carl Schmitt (surtout le théoricien du « grand espace » et le critique des faux traités pacifistes dictés par les Américains) ni surtout du géopolitologue Robert Strausz-Hupé (1903-2002) qui, pour le compte de Roosevelt et de Truman, percevait très clairement les atouts de la puissance européenne (allemande à son époque), que toute politique américaine se devait de détruire. Ces atouts étaient, entre bien d’autres choses, l’excellence des systèmes universitaires européens, la cohésion sociale due à l’homogénéité des populations et la qualité des produits industriels. Le système universitaire a été détruit par les nouvelles pédagogies aberrantes depuis les années 60 et par ce que Philippe Muray appelait en France l’idéologie « festiviste » ; l’homogénéité des populations est sapée par des politiques migratoires désordonnées et irréfléchies, dont l’afflux massif de ces dernières semaines constitue l’apothéose, une apothéose qui détruira les systèmes sociaux exemplaires de notre Europe, qui seront bientôt incapables de s’auto-financer. Les Européens seront dès lors dans l’impossibilité de consacrer des budgets (d’ailleurs déjà insuffisants ou inexistants) à l’insertion de telles quantités de nouveaux venus. L’Europe s’effondre, perd l’atout de son excellent système social et ne peut plus distraire des fonds pour une défense continentale efficace ou pour la « recherche & développement » en technologies de pointe. Avec le scandale Volkswagen, qui verra le marché américain lui échapper, un coup fatal est porté à l’industrie lourde européenne. La boucle est bouclée.

2.     Partout en Europe des mouvements hostiles à l'immigration ont beaucoup de succès. Dans bon nombre de ces cas, cependant, ces partis n'ont pas très clairement compris qu’attaquer l'immigration sans se battre contre la vision du monde libérale et les mécanismes du capitalisme est une bataille qui ne touche pas les racines du Système. Que pensez-vous?

Votre question pointe du doigt le problème le plus grave qui soit : effectivement, les succès récents de partis ou mouvements hostiles à cette nouvelle vague migratoire, considérée comme ingérable, sont dus à un facteur bien évident : les masses devinent inconsciemment que les acquis sociaux des combats socialistes, démocrates-chrétiens, nationalistes, communistes et autres, menés depuis la fin du 19ème siècle, vont être balayés et détruits. Le paradoxe que nous avons sous les yeux est le suivant : depuis 1979 (année de l’accession au pouvoir de Thatcher en Grande-Bretagne), la vogue contestatrice de l’Etat keynésien, jugé trop rigide et mal géré par les socialistes « bonzifiés » (Roberto Michels), a été la vogue néolibérale, mêlant, en un cocktail particulièrement pernicieux, divers linéaments de l’idéologie libérale anti-étatique et anti-politique. Une recomposition mentale erronée s’est opérée : elle a injecté dans toutes les contestations des déviances et errements politiques régimistes une dose de néolibéralisme, dorénavant difficilement éradicable. Quand ces partis et mouvements anti-immigration acquièrent quelque pouvoir, même à des niveaux assez modestes, ils s’empressent de réaliser une partie du vaste programme déconstructiviste des écoles néolibérales, préparant de la sorte l’avènement d’horreurs comme le Traité transatlantique qui effacera toute trace des Etats nationaux et tout résidu d’identité populaire et nationale. On combat l’immigration parce qu’on l’accuse de porter atteinte à l’identité mais on pratique des politiques néolibérales qui vont bientôt tuer définitivement toute forme d’identité. Le combat contre le néolibéralisme et ses effets délétères doit être un combat socialiste et syndicaliste musclé (retour à Sorel et Corridoni), pétri, non plus des idées édulcorées et dévoyées des pseudo-socialistes actuels, mais des théories économiques dites « hétérodoxes », dérivées de Friedrich List, des écoles historiques allemandes et de l’institutionnalisme américain (Thorstein Veblen). Parce que ces écoles hétérodoxes ne sont pas universalistes mais tiennent compte des contextes religieux, nationaux, civilisationnels, culturels, etc. Elles ne théorisent pas un homme, un producteur ou un consommateur abstrait mais un citoyen ancré dans une réalité léguée par l’histoire. Etre en rébellion contre le système, négateur des réalités concrètes, postule d’être un hétérodoxe économique, qui veut les sauver, les réhabiliter, les respecter.

3.     Que pensez-vous des positions actuelles, plus ou moins «identitaires» des intellectuels comme Zemmour, Onfray, Houellebecq, Finkielkraut, Debray?

Tous les hommes que vous citez ici sont bien différents les uns des autres : seuls les praticiens sourcilleux de la médiacratie contrôlante et du « politiquement correct » amalgament ces penseurs en une sorte de nouvel « axe du mal » au sein du « paysage intellectuel français » (PIF). Zemmour dresse un bilan intéressant de la déconstruction de la France au cours des quatre dernières décennies, déconstruction qui est un démantèlement progressif de l’Etat gaullien. En ce sens, Zemmour n’est pas un « libéral » mais une sorte de personnaliste gaullien qui estime qu’aucune société ne peut bien fonctionner sans une épine dorsale politique.

 

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Onfray a toujours été pour moi un philosophe plaisant à lire, au ton badin, qui esquissait de manière bien agréable ce qu’était la « raison gourmande », par exemple, et insistait sur l’homme comme être de goût et non pas seulement être pensant à la façon de Descartes. Onfray esquissait une histoire alternative de la philosophie en ressuscitant des filons qu’une pensée française trop rationaliste avait refoulés ou qui ne cadraient plus avec la bien-pensance totalitaire inaugurée par Bernard-Henry Lévy à la fin des années 70, période où émerge le « politiquement correct » à la française. Plus récemment, Onfray a sorti un ouvrage toujours aussi agréable à lire, intitulé « Cosmos », où il apparaît bien pour ce qu’il est, soit un anarchiste cosmique, doublé d’un nietzschéen libertaire, d’un avatar actuel des « Frères du Libre Esprit ». Certaines de ses options le rapprochent des prémisses organicistes, dionysiaques et nietzschéennes de la fameuse « révolution conservatrice » allemande, du moins dans les aspects non soldatiques qu’elle a revêtus avant la catastrophe de 1914. D’où un certain rapprochement avec la nouvelle droite historique, observable depuis quelques jours seulement.

 

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Houellebecq exprime, mieux que personne en Europe occidentale aujourd’hui, l’effondrement moral de nos populations, leur dé-virilisation sous les coups de butoir d’un féminisme exacerbé et délirant, ce qui explique, notamment, le succès retentissant de son ouvrage Soumission aux Etats-Unis. Houellebecq se déclare affecté lui-même par la maladie de la déchéance, qui, qu’on le veuille ou non, fait l’identité européenne actuelle, radical contraire de ce que furent les fulgurances héroïques et constructives de l’Europe d’antan. L’homo europaeus actuel est un effondré moral, une loque infra-humaine qui cherche quelques petits plaisirs furtifs et éphémères pour compenser le vide effroyable qu’est devenue son existence. Pour retrouver une certaine dignité, notamment face à ce féminisme castrateur, cet homo europaeus pourrait, pense Houellebecq, se soumettre à l’islam, le terme « islam » signifiant d’ailleurs soumission à la volonté de Dieu et aux lois de sa création. Ce passage à la « soumission », c’est-à-dire à l’islam, balaierait le féminisme castrateur et redonnerait quelque lustre aux mâles frustrés, où ceux-ci pourraient reprendre du poil de la bête dans une Oumma planétaire, agrandie de l’Europe.

Le parcours de Finkielkraut est plus étonnant, dans la mesure où il a bel et bien fait partie de ces « nouveaux philosophes » de la place de Paris, en lutte contre un totalitarisme qu’ils jugeaient ubiquitaire et dont ils étaient chargé par la « Providence » ou par « Yahvé » (Lévy !) de traquer les moindres manifestations ou les résurgences les plus ténues. Ce totalitarisme se percevait partout, surtout dans les structures de l’Etat gaullien, subtilement assimilé, surtout chez Bernard-Henri Lévy, à des formes françaises d’une sorte de nazisme omniprésent, omni-compénétrant, toujours prêt à resurgir de manière caricaturale. Ces diabolisations faisaient le jeu du néolibéralisme thatchéro-reaganien et datent d’ailleurs de l’avènement de celui-ci sur les scènes politiques britannique et américaine. Finkielkraut a été emblématique de ces démarches, surtout, rappelons-le, lors de la guerre de l’OTAN contre la Serbie. Finkielkraut avait exhumé des penseurs libéraux serbes du 19ème siècle inspirés par le philosophe différentialiste allemand Herder, pour démontrer de manière boiteuse, en sollicitant les faits de manière pernicieuse et malhonnête, que deux de ces braves philologues serbes, espérant se débarrasser du joug ottoman, étaient en réalité des précurseurs du nazisme (encore !). Ce travail de Finkielkraut était d’autant plus ridicule qu’au même moment, à Vienne, un journaliste très connu, Wolfgang Libal, également israélite mais, lui, spécialiste insigne du « Sud-Est européen », écrivait un ouvrage à grand tirage pour démontrer le caractère éminemment démocratique (national-libéral) des deux philologues, posés comme pionniers de la modernité dans les Balkans !!

9782070415526.jpgAprès son hystérie anti-serbe, Finkielkraut, sans doute parce qu’il prend de l’âge, s’est « bonifié » comme disent les œnologues. Son ouvrage sur la notion d’ingratitude, qui est constitué des réponses à un très long entretien accordé au journal québécois Le Devoir, est intéressant car il y explique que les malheurs de notre époque viennent du fait que l’homme actuel se montre « ingrat » par rapport aux legs du passé. J’ai lu cet entretien avec grand intérêt et beaucoup de plaisir, y retrouvant d’ailleurs une facette de l’antique querelle des anciens et des modernes. Je dois l’avouer même si le Finkielkraut serbophobe m’avait particulièrement horripilé. A partir de cette réflexion sur l’ingratitude, Finkielkraut va, peut-être inconsciemment, sans doute à son corps défendant, adopter les réflexes intellectuels des deux Serbes herdériens qu’il fustigeait avec tant de fureur dans les années 90. Il va découvrir l’« identité » et, par une sorte de tour de passe-passe qui me laisse toujours pantois, défendre une identité française que Lévy avait posée comme une matrice particulièrement répugnante du nazisme !

Debray est un penseur plus profond à mes yeux. Le début de sa carrière dans le paysage intellectuel français date des années 60, où il avait rencontré et accompagné Che Guevara en Bolivie. Cet aspect suscite toutes les nostalgies d’une époque où l’aventure était encore possible. Jean Cau, ancien secrétaire de Sartre (entre 1947 et 1956) qui, ultérieurement,  ne ménagera pas ses sarcasmes à l’encontre des gauches parisiennes, consacrera en 1979 un ouvrage au Che, intitulé Une passion pour Che Guevara ; en résumé, nous avons là l’hommage d’un ancien militant de gauche, passé à « droite » (pour autant que cela veuille dire quelque chose…), qui ne renie pas la dimension véritablement existentielle de l’aventure et de l’engagement pour ses idées, fussent-elles celles qu’il vient explicitement de rejeter. Debray a donc mis, dans une première phase de sa carrière, sa peau au bout de ces idées. Peu ont eu ce courage même si d’aucuns ont cherché plus tard à minimiser son rôle en Bolivie.

51EqyovmguL._SX302_BO1,204,203,200_.jpgDans les années 80, Debray, devenu, plutôt à son corps défendant, faire-valoir du mitterrandisme ascendant, participera à toutes les mascarades de la gauche officielle, en voie de « festivisation » et d’embourgeoisement, où les cocottes et les bobos se piquent d’eudémonisme et se posent en « belles âmes » (on sait ce que Hegel en pensait…). Les actions qu’il mène, je préfère les oublier aujourd’hui, tant elles ont participé des bouffonneries pariso-parisiennes. Mais entre l’épisode du militant guevariste et celle du néo-national-gaulliste d’aujourd’hui, il n’y a pas eu que cette participation à la lèpre républicano-mitterrandiste, il y a eu le passage du Debray militant et idéologue au Debray philosophe et « médiologue » (une science visant à cerner l’impact des « médiations », des images, dont éventuellement celles des médias, sur la formation ou la transformation des mentalités et des aspirations politiques). C’est dans le cadre de ce statut de « médiologue », qui commence en 1993, que Debray va glisser progressivement vers des positions différentes de celles imposées par le ronron médiatique ou le « politiquement correct » des « nouveaux philosophes » (Lévy, etc.) « qui », dit-il, « produisent de l’indignation au rythme de l’actualité ». Debray, comme l’indique alors le titre d’un de ses ouvrages récents, Dégagements, se « dégage » de ses engagements antérieurs, l’espace de la gauche, de sa gauche, ayant été phagocyté par de nouveaux venus qui se disent « occidentaux » et participent à la pratique perverse de la table rase, notamment en Amérique latine : leur travail de sape serait entièrement parachevé si des hommes comme Evo Morales, qu’il qualifie positivement d’« indigéniste », ne s’étaient pas dressés contre son vieil ennemi l’impérialisme américain, appuyé par les bourgeoisies compradores.

Enfin, les révolutions socialistes (et communistes) sont d’abord des nationalismes, écrit-il en 2010 : en dépit de l’omniprésence du Front National dans la vie politique de l’Hexagone, Debray ne craint plus le mot, à l’heure où les nouvelles gauches « néo-philosophiques » perdent et ruinent tout sens historique et basculent dans la moraline répétitive et incantatoire, dans le compassionnel et l’indignation programmée. Debray se déclare aussi « vieux jeu » : ce n’est pas le reproche que je lui ferai ; cependant, l’abus, dans ses œuvres polémiques récentes, est d’utiliser trop abondamment le vocable (également incantatoire) de « République » qui, pour tout observateur non parisien, est un véhicule d’éléments délétères de modernité donc d’ignorance du véritable tissu historique et populaire. De même, sa vision de l’« Etat » est trop marquée par l’idéologie jacobine, figée au fil des décennies depuis le début du 19ème siècle. Ceci dit, ses remarques et ses critiques (à l’adresse de son ancien camp) permettent de réamorcer un combat, non pas pour rétablir la « République » à la française avec son cortège de figements et d’archaïsmes ou un Etat trop rigide, mais pour restaurer ce que Julien Freund, à la suite de Carl Schmitt, nommait « le politique ». Combat qui pourrait d’ailleurs partir des remarques excellentes de Debray sur la « représentation », sur le « decorum », nécessaire à toute machine politique qui se respecte et force le respect : Carl Schmitt insistait, lui aussi, sur les splendeurs et les fastes du catholicisme, à reproduire dans tout Etat, sur la visibilité du pouvoir, antidote aux « potestates indirectae », aux pouvoirs occultes qui produisent les oligarchies dénoncées par Roberto Michels, celles qui se mettent sciemment en marge, se dérobent en des coulisses cachées, pour se soustraire au regard du peuple ou même de leurs propres militants. Schmitt hier, Debray aujourd’hui, veulent restaurer la parfaite visibilité du pouvoir : nous trouvons là une thématique métapolitique offensive qu’il serait bon, pour tous, d’articuler en nouveaux instruments de combat. Debray est sans nul doute une sorte d’enfant prodigue, qui a erré en des lieux de perdition pour revenir dans un espace à l’air rare et vif. L’histoire des idées se souviendra de son itinéraire : nous jetterons dès lors un œil narquois sur les agitations qu’il a commises dans les années 80 dans les allées du pouvoir mitterrandien et vouerons une admiration pour l’itinéraire du « médiologue » qui nous aura fourni des arguments pour opérer une critique de la dictature médiatique et pour rendre au pouvoir sa visibilité, partageable entre tous les citoyens et donc véritablement « démocratique » ou plutôt réellement populiste. Derrière cela, les quelques « franzouseries » statolâtriques et « républicagnanates », qu’il traine encore à ses basques, seront à mettre au rayon du folklore, là où il rangeait lui-même le vieux et caduc « clivage gauche/droite », dans quelques phrases bien ciselées de Dégagements.

4.     Êtes-vous d'accord avec la thèse du Grand Remplacement?

Camus—Identitaires.jpgJe ne considère pas la notion de « Grand Remplacement » comme une thèse mais comme un terme-choc impulsant une réflexion antagoniste par rapport au fatras dominant, comme une figure de rhétorique, destinée à dénoncer la situation actuelle où le compassionnel, introduit dans les pratiques politiques par les nouveaux philosophes, évacue toute éthique de la responsabilité. Vous avez vous-même, en langue italienne, défini et explicité la notion de « Grand Remplacement » (http://www.ilprimatonazionale.it/cultura/grande-sostituzione-32682/ ). Vous l’avez fait avec brio. Et démontré que Marine Le Pen comme Matteo Salvini l’avaient incluse dans le langage politico-polémique qui anime les marges dites « droitières » ou « populistes » des spectres politiques européens d’aujourd’hui. Renaud Camus, père du concept, a le sens des formules, du discours (selon une bonne tradition française remontant au moins à Bossuet). Il est aussi le créateur de deux autres notions qui mériteraient de connaître la même bonne fortune : la notion de « nocence », contraire de l’« in-nocence », puis la notion de « dé-civilisation ». Renaud Camus se pose comme « in-nocent », comme un être qui ne cherche pas à nuire (« nocere » en latin). Les régimes politiques en place, eux, cherchent toujours à nuire à leurs citoyens ou sujets, qu’il haïssent au point de vouloir justement les remplacer par des êtres humains perdus, venus de partout et de nulle part, attirés par les promesses fallacieuses d’un paradis économique, où l’on touche des subsides sans avoir à fournir des efforts ni à respecter des devoirs sociaux ou citoyens. Les établis forment donc le parti de la « nocence », de la nuisance, auquel il faut opposer l’idéal, peut-être un peu irénique, de l’« in-nocence », sorte d’ascèse qui me rappelle tout à la fois le bouddhisme de Schopenhauer, le quiétisme de Gustav Landauer, but de son idéal révolutionnaire à Munich en 1919, et l’économie empathique de Serge-Christophe Kolm, inspiré par les pratiques bouddhistes (efficaces) qu’il a observées en Asie du Sud-est (cf. notre dossier : http://www.archiveseroe.eu/kolm-a118861530 ). Si la « nocence » triomphe et s’établit sur la longue durée, la civilisation, après la culture et l’éducation, s’effiloche, se détricote et disparait. C’est l’ère de la « dé-civilisation », du « refus névrotique de l’héritage ancestral », commente l’écrivain belge Christopher Gérard. Ce pessimisme n’est pas une idée neuve mais, à notre époque, elle constitue un retour du réalisme, après une parenthèse trop longue de rejet systématique et pathologique de nos héritages.

arton70.jpgJe mettrais en parallèle la double idée de Renaud Camus d’une « dé-culturation » et d’une « dé-civilisation » avec l’idée de « dissociété », forgée par le philosophe Marcel De Corte au début des années 50. Pour De Corte, monarchiste belge et catholique thomiste, l’imposition des élucubrations libérales de la révolution française aux peuples d’Europe a conduit à la dislocation du tissu social, si bien que nous n’avons plus affaire à une « société » harmonieuse, au sens traditionnel du terme comme l’entendait Louis de Bonald, mais à une « dissociété ». L’idée, en dépit de son origine très conservatrice, est reprise aujourd’hui par quelques théoriciens d’une gauche non-conformiste, dont le Prof. Jacques Généreux qui constate amèrement que les pathologies de la dissociété moderne sont une « maladie sociale dégénérative qui altère les consciences en leur inculquant une culture fausse ». Généreux, socialiste au départ et rêvant à l’avènement d’un nouveau socialisme capable de gommer définitivement les affres de la « dissociété », quitte, déçu, le PS français en 2008 pour aller militer au « Parti de Gauche » et pour figurer sur la liste « Front de Gauche pour changer l’Europe », candidate aux élections européennes de 2009. En mars 2013, les idées, pourtant pertinentes, de Généreux ne séduisent plus ses compagnons de route et ses co-listiers : il n’est pas réélu au Bureau politique ! Preuve que la pertinence ne peut aller se nicher et prospérer au sein des gauches françaises non socialistes, bornées dans leurs analyses, sclérosées dans des marottes jacobines et résistancialistes qui ne sont qu’anachronismes ou tourneboulées par les délires immigrationnistes dont l’irréalisme foncier est plus virulent et plus maladivement agressif en France qu’ailleurs en Europe.

Ceci dit, l’idée de « Grand Remplacement » est à mes yeux un des avatars actuels d’un ouvrage écrit en 1973, le fameux récit Le Camp des Saints de Jean Raspail, où l’Europe est envahie par des millions d’hères faméliques cherchant à s’y installer. Les grandes banlieues des principales villes de France étaient déjà occupées par d’autres populations, complètement coupées des Français de souche. Dorénavant on voit la bigarrure ethnique émerger, à forte ou à moyenne dose, dans de petites villes comme Etampes, Vierzon ou Orléans, où elle semble effectivement « remplacer » les départs antérieurs, ceux de l’exode rural, ceux du départ vers les grandes mégapoles où dominent les emplois du secteur tertiaire. La France donne l’impression de juxtaposer sur son territoire deux ou plusieurs sociétés (ou dissociétés) parallèles, étanches les unes par rapport aux autres. Personne n’est satisfait ; d’abord les « remplacés », bien évidemment, dont les modes de vie et surtout les habitudes alimentaires sont dénigrées et jugées « impures » (ce qui fâche tout particulièrement les Français, très fiers de leurs traditions gastronomiques) mais aussi les « remplaçants » qui ne peuvent pas reproduire leur mode de vie et manifestent dès lors un mal de vivre destructeur. Le plan satanique du libéralisme se réalise dans cette bigarrure : la société est disloquée, livrée à la « cash flow mentality », déjà décriée par Thomas Carlyle au début du 19ème siècle. Le néolibéralisme, amplification monstrueuse de cette « mentality », étendue à la planète entière, ne peut survivre que dans des sociétés brisées, de même que les « économies diasporiques » ou les réseaux mafieux, pourfendus par les gauches intellectuelles non conformistes mais non combattus sur le terrain, dans le concret de la dissociété réellement existante.

5.     Dans le parlement italien, on est en train de changer les lois sur la citoyenneté, en introduisant le principe de la citoyenneté par le lieu de naissance (jus soli) à la place de celui fondé sur la nationalité des parents (jus sanguinis). Selon vous quelles conséquences cela aura sur le tissu social de notre pays?

Le débat opposant le jus sanguinis au jus soli est ancien. Il remonte à l’époque napoléonienne. Napoléon voulait accorder automatiquement la nationalité française à toute personne vivant en France et ayant bénéficié d’une éducation (scolaire) française. Le but était aussi de recruter des soldats pour les campagnes militaires qu’il menait partout en Europe. Les rédacteurs du Code civil optent toutefois pour le jus sanguinis. Ces dispositions seront modifiées en 1889, vu l’afflux massif d’immigrés dans la France du 19ème siècle, essentiellement belges et italiens, dans une moindre mesure allemands et espagnols. Même visée que celle de Napoléon : la France de souche connait un ressac démographique, encore léger toutefois, face à une Allemagne qui, elle, connaît un véritablement boom démographique, en dépit des émigrations massives vers les Etats-Unis (plus de 50 millions de citoyens américains sont aujourd’hui d’origine allemande). Il faut à cette France angoissée devant son voisin de l’Est une masse impressionnante de soldats. De même, il faut envoyer des troupes dans un Outre-Mer souvent en révolte où les effectifs de la « Légion étrangère » ne suffisent pas. Dans Paris, sur les monuments aux morts de la première guerre mondiale, on lit plus de 10% de noms germaniques, allemands, suisses ou flamands, quelques noms italiens (ou corses ?), ce qui ne mentionne rien sur les immigrés romans de Suisse ou de Wallonie, parfois de Catalogne, dont les patronymes sont gallo-romans, comme ceux des Français de souche. La France s’est voulue multiethnique dès la fin du 19ème siècle, forçant parfois les immigrés européens, notamment en Afrique du Nord, à acquérir la nationalité française. Tant que cet apport volontaire ou forcé était le fait de peuples immédiatement périphériques, l’intégration et la fusion s’opéraient aisément. Après l’horrible saignée de 1914-18, quand les villages de la France profonde sont exsangues, une immigration plus exotique prend le relais de celle des peuples voisins. La départementalisation de l’Algérie et l’entrée, d’abord timide, de travailleurs algériens, puis subsahariens, colore la nouvelle immigration. Rien à signaler dans un premier temps. Ou rien que des broutilles. A partir du moment où certaines banlieues deviennent à 90% exotiques, le projet d’intégration et d’assimilation cafouille : pourquoi s’intégrer puisque l’environnement de l’immigré n’est en rien « Français de souche » ? Il lui est désormais possible de vivre en complète autarcie par rapport à la population d’origine. La société devient « composite » comme le déplorent les théoriciens indiens du RSS et du BJP qui estiment aussi que de telles sociétés n’ont pas d’avenir constructif, sont condamnées au chaos et à l’implosion. Pour les sociétés européennes, l’avenir nous dira si ces prophéties des théoriciens indiens s’avèreront exactes ou fausses. En attendant, l’introduction du jus soli, au détriment de tout jus sanguinis, en Italie comme ailleurs en Europe, est le signe d’un abandon volontaire de toute idée de continuité, d’héritage. Avec les théories du genre (le « gendérisme ») et les pratiques du néolibéralisme   ­-dont la délocalisation et la titrisation soit l’abandon de toute économie patrimoniale et industrielle au profit d’une économie de la spéculation boursière-   ce glissement annonce l’éclosion d’une société nouvelle, éclatée, amnésique, jetant aux orties l’éthique wébérienne de la responsabilité, pour la remplacer par des monstrations indécentes de toutes sortes d’éthiques de la conviction, prononcée sur le mode de l’hystérie « politiquement correcte » et travestie d’oripeaux festivistes et compassionnels. Bref, un Halloween planétaire et permanent.

Forest-Flotzenberg, octobre 2015.

samedi, 31 octobre 2015

Laurent Henninger: Puissance et stratégie pour penser les forces armées du XXIème siècle

Laurent Henninger: Puissance et stratégie pour penser les forces armées du XXIème siècle

Laurent Henninger était l'invité du Cercle Aristote. Dans sa conférence, intitulée "Penser les forces armées au 21ème siècle", cet historien militaire évoque l'avènement prochain d'un système totalitaire plus violent que ceux du 20ème siècle et dénonce la politique de l'émotion.

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Should We Fight for the Spratlys?

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Should We Fight for the Spratlys?

By

Ex: http://www.lewrockwell.com

Trailed by two Chinese warships, the guided-missile destroyer USS Lassen sailed inside the 12-nautical-mile limit of Subi Reef, a man-made island China claims as her national territory.

Beijing protested. Says China: Subi Reef and the Spratly Island chain, in a South China Sea that carries half of the world’s seaborne trade, are as much ours as the Aleutians are yours.

Beijing’s claim to the Spratlys is being contested by Vietnam, Malaysia, Brunei, the Philippines and Taiwan. While Hanoi and Manila have occupied islets and built structures to back their claims, the Chinese have been more aggressive.

They have occupied rocks and reefs with troops, dredged and expanded them into artificial islands, fortified them, put up radars and are building air strips and harbors.

What the Chinese are about is easy to understand.

Having feasted and grown fat on trade surpluses with the United States, the Chinese are translating their economic strength into military power and a new strategic assertiveness.

They want to dominate East Asia and all the seas around it.

We have been told our warships are unwelcome in the Yellow Sea and the Taiwan Strait. Beijing also claims the Senkakus that Japan occupies, which are covered by our mutual security treaty.

And not only is the South China Sea one of the world’s crucial waterways, the fish within can feed nations and the floor below contains vast deposits of oil and gas.

Who owns the islands in the South China Sea owns the sea.

Moreover, our world has changed since Eisenhower threatened to use nuclear weapons to defend Taiwan and the offshore islands of Quemoy and Matsu — and since Bill Clinton sent two U.S. carrier battle groups through the Taiwan Strait.

Now we send a lone destroyer inside the 12-mile limit of a reef that, until recently, was under water at high tide.

What China is doing is easily understandable. She is emulating the United States as we emerged to become an imperial power.

After we drove Spain out of Cuba in 1898, we annexed Puerto Rico and the Hawaiian Islands, where America settlers had deposed the queen, took Wake and Guam, and annexed the Philippines. The subjugation of Filipino resistance required a three-year war and thousands of dead Marines.

And the reaction of President McKinley when he heard our Asian squadron had seized the islands:

“When we received the cable from Admiral Dewey telling of the taking of the Philippines I looked up their location on the globe. I could not have told where those darned islands were within 2,000 miles.”

In 1944, General MacArthur, whose father had crushed the Filipino resistance, retook the islands from the Japanese who had occupied them after Pearl Harbor.

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At the end of the Cold War, however, Manila ordered the United States to get out of Clark Air Force Base and Subic Bay naval base. We did as told. Now our Filipino friends want us back to confront China for them, as do the Vietnamese Communists in Hanoi.

Before we get ourselves into the middle of their dispute, before we find ourselves in an air war or naval clash with China, we ought to ask ourselves a few questions.

First, why is this our quarrel? We have no claim to any of the Spratly or Paracel Islands in the South China Sea. Yet, each of the claimants — Beijing, Taipei, Manila, Hanoi — seems to have maps going back decades and even centuries to support those claims.

Besides freedom of the seas, what is our vital interest here?

If these islands are Chinese territory, Beijing has the same right to build air and naval bases on them as we do in the Aleutians, Hawaii, Wake and Guam. What do we hope to accomplish by sailing U.S. warships into what China claims to be her territorial waters?

While the ships of the U.S. Seventh Fleet are superior to those of the Chinese navy, China has more submarines, destroyers, frigates and missile boats, plus a vast inventory of ground-based missiles that can target warships at great distances.

In an increasingly nationalist China, Xi Jinping could not survive a climbdown of China’s claims, or dismantlement of what Beijing has built in the South China Sea. President Xi no more appears to be a man to back down than does President Putin.

Continued U.S. overflights or naval intrusion into the territorial waters of Chinese-claimed islands are certain to result in a violent clash, as happened near Hainan Island in 2001.

Where would we go from there?

China today is in trouble. She is feared and distrusted by her neighbors; her economy has lost its dynamism; and the Communist Party is riven by purges and rampant corruption.

If we believe this will be the Second American Century, that time is on our side, that Chinese communism is a dead faith, we ought to avoid a clash and show our opposition to Beijing’s excesses, if need be, by imposing tariffs on all goods made in China.

China’s oligarchs will understand that message.

L'Amérique en guerre contre la Chine. Et de ce fait contre l'Europe?

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L'Amérique en guerre contre la Chine. Et de ce fait contre l'Europe?

par Jean-Paul Baquiast
Ex: http://www.europesolidaire.eu
 
La Chine a signé le 20 octobre une commande portant sur l'acquisition de 30 A330 et 100 A320 auprès d'Airbus pour un prix indicatif de 15,5 milliards d'euros, lors d'une visite de la chancelière allemande Angela Merkel . Ce voyage de deux jours de Mme Merkel intervient dans une période d'activité diplomatique intense entre Pékin et l'Europe, suivant un séjour très médiatisé du président chinois Xi Jinping au Royaume-Uni et à quelques jours d'une venue en Chine du président français François Hollande.
 
 
Celui-ci doit effectuer une visite d'Etat en Chine les 2 et 3 novembre à l'invitation de son homologue Xi Jinping, dans l'optique de la conférence de l'ONU COP21 qui se tiendra du 30 novembre au 11 décembre à Paris.  L'objectif en est de préparer le lancement avec le président Xi Jinping d'un appel pour le climat lors de cette conférence.

A l'occasion de ces deux visites, de nombreux contacts entre industriels de chacun des pays préciseront la volonté des Européens d'aider la Chine, sur sa demande, à sortir d'une économie exportatrice de main d'œuvre à bas coût et devenir une économie industrielle à haute valeur ajoutée, qui est celle de l'Allemagne et dans de nombreux secteurs de la France.

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Précédemment,le 22 octobre, lors de la visite au Royaume-Uni du président chinois Xi Jinping, 55 milliards d'euros d'accords commerciaux avaient été été signés. Rappelons également que la Grande Bretagne, suivie de la France et d'autres pays européens importants, avaient décidé de devenir membres fondateurs de la nouvelle Banque asiatique pour les investissements dans les infrastructures AIIB fondée par la Chine.

Ainsi voit-on progressivement et sans tapage diplomatique s'établir une convergence euro-asiatique, incluant nécessairement la Russie. Elle est dans la logique d'une alliance stratégique indispensable des deux continents, face aux risques divers qu'affronte la planète. Dans certains cercles, on emploie le terme de convergence euro-Brics.

Guerre en mer de Chine?


Dans le même temps cependant, bien évidemment sans aucun accord des Européens, les Etats-Unis précipitent des affrontements militaires entre eux et la Chine en Mer de Chine méridionale, que nous évoquons depuis plusieurs jours sur ce site. L'offensive américaine prend actuellement de plus en plus d'ampleur, avec le soutien du Japon et de l'Australie qui sont au plan diplomatique complètement inféodés à l'Amérique.

L'incursion d'un navire lance-missile américain , l'USS Lassen dans les eaux territoriales de l'archipel des Spratley, depuis longtemps revendiqué par la Chine et reconnu de fait comme une extension de son territoire maritime, (voir notre article http://www.europesolidaire.eu/article.php?article_id=1950&r_id=) se révèle comme prévu être le début d'une offensive de bien plus grande ampleur contre la Chine, dont il ne faut pas oublier qu'elle est une puissance nucléaire dotée récemment d'armements sophistiqués modernes en matière d'affrontements aéro-navals et de guerre électronique. Le secrétaire à la défense Ashton Carter vient de rappeler qu'en défense d'un Droit à la liberté de navigation que la Chine ne menace en aucune façon, les actions militaires, aériennes et navales américaines s'amplifieront dans les prochaines semaines.

L'US Navy a de fait positionné depuis plusieurs mois en Mer de Chine deux porte-avions nucléaires et leurs escortes, l'USS Theodore Roosevelt (image) et l'USS Ronald Reagan. Elle pourrait prochainement missionner l'un deux, sinon les deux, dans la suite de l'USS Lassen. Cette offensive contre la Chine, qui était depuis plusieurs années réclamée par des forces politiques en militaires américaines très influentes, avait été jusqu'ici tenue en bride par un Barack Obama préoccupé de ne pas laisser grandir l'influence russe en Europe et au Moyen-Orient. Mais devant les échecs rencontrés sur ces deux terrains, le lobby militaro-politique anti-chinois avait repris toute son influence au Congrès et à la Maison Blanche.

Que cherche l'Amérique? Pour le Pentagone, autant que l'on puisse en juger à la lecture des nombreux articles qu'il fait publier, l'objectif est de précipiter une véritable guerre contre la Chine avant que les mesures de Déni d'accès et de couverture sous marine destinées à protéger les côtes chinoises n'aient atteint leur plein effet.(voir notre article http://www.europesolidaire.eu/article.php?article_id=1948&r_id=) Cette guerre devrait déboucher sur ce que le Pentagone nomme une large «  AirSea Battle strategy » prenant la forme d'un assaut dévastateur, aérien et par missiles, sur les côtes chinoises et les grands centres industriels s'y trouvant. Cet assaut serait déclenché très rapidement si les Chinois tentaient de s'opposer par quelque moyen militaire que ce soit, fut-il symbolique,contre les intrusions aéro-navales américaines.

L'objectif de Washington est manifestement que, confronté à cette menace de destruction, la Chine rentre dans le giron américain, partageant avec la Japon, les Philippines et bien d'autres, le statut de semi-colonie. Alors, grâce notamment au Traité de libre échange transpacifique que l'Amérique vient d'imposer, la Chine ne pourrait plus refuser les bienfaits de la domination des intérêts transnationaux américains.

Londres, Berlin et Paris devront pour ce qui les concerne renoncer alors à toute autonomie diplomatique et économique à l'égard de la Chine. Ainsi les contrats envisagés par celle-ci avec, entre autres, Airbus, seront très sainement reconvertis en contrats avec Boeing . Celui ci pourra retrouver le monopole quasi absolu qu'il exerçait jusqu'ici dans le domaine du transport aérien chinois.

Jean Paul Baquiast

Affrontements militaires aux frontières de l'Empire américain

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Affrontements militaires aux frontières de l'Empire américain

par Jean-Paul Baquiast
Ex: http://www.europesolidaire.eu
 
Partons de l'hypothèse optimiste qu'aujourd'hui les grandes puissances mondiales, USA, Russie et Chine, ne s'affronteraient pas (sauf accident toujours possible) de façon délibérée avec des armes nucléaires dites stratégiques (Bombe H) car ce serait la fin, non seulement des belligérants mais du monde entier.

Pourrait en envisager par contre que dans de futurs conflits, soit entre elles, soit avec des voisins jugés agressifs, elles emploieraient des armes nucléaires tactiques? Celles-ci peuvent être à courte portée, constituées de charges limitées et donc susceptibles d'avoir des effets locaux. Leurs effets seraient désastreux pour les zones touchées mais ne devraient pas en principe conduire à un recours aux armes stratégiques.

Là aussi, on peut supposer que les grandes puissances évoquées ci-dessus, et même d'autres puissances moyennes dotées de l'arme atomique, comme l'Inde, le Pakistan ou Israël, hésiteraient d'avoir recours en première frappe à des armes nucléaires fussent-elles très peu puissantes. La raison en serait que dans ce cas, elles s'exposeraient à des frappes en représailles bien plus puissantes, pouvant leur provoquer chez elles des dégâts humains et matériels considérables.

Dans les deux cas, ces perspectives n'empêcheraient pas ces différentes puissances de renforcer et améliorer constamment leur arsenal nucléaire. Ceci serait une conséquence de l'effet dit de dissuasion: les belligérants potentiels sont découragés d'utiliser des armes atomiques s'ils savent risquer des ripostes en retour de même nature. C'est pour cette raison que jusqu'à ce jour, les arsenaux nucléaires et leurs vecteurs sont considérés comme ayant permis d'éviter les conflits autres que périphériques.

Les armes conventionnelles

Qu'en est-il de l'utilisation des armes non nucléaires dites conventionnelles? Il est bien connu que celles-ci sont constamment utilisées, non seulement par les puissances grandes ou petites, mais par tous les pays et mouvements susceptibles de s'en procurer. C'est pour cette raison que les grandes puissances, pour conserver leur primauté, s'efforcent en permanence de les améliorer. Il en est de même de tous les pays disposant d'industries militaires, comme parmi de nombreux autres Israël ou l'Iran. Cet effort d'amélioration porte sur tous les systèmes d'armes dont ces pays sont susceptibles de se doter et d'utiliser, terrestres, aériens et maritimes.

Nous avons noté dans des articles précédents que la Russie a récemment surpris le reste du monde à l'occasion de ses interventions en Syrie. Elle a montré qu'elle dispose désormais de missiles de croisières à longue portée et de systèmes permettant de désarmer les divers moyens de guerre électronique susceptibles d'emplois contre ses forces en cas de conflits; sonars, radars, systèmes de guidage et autres. Évidemment, les Etats susceptibles de voir employer contre leurs unités de tels moyens feront tout ce qu'ils pourront pour de doter de moyens équivalents et si possibles supérieurs.

Dans le cas précis des relations entre Russie et USA s'engagera ainsi une course aux armements conventionnels. Il n'est pas certain que la Russie la perde, compte tenu des réformes importantes apportées récemment par le nouveau pouvoir aux capacités de son CMI (Complexe militaro industriel) au moment où le CMI américain peine à de moderniser, comme le montre le désastre industriel et militaire qu'est l'affaire du JSF F35. Est-ce à dire que les forces des deux blocs, USA et Russie, n'hésiteraint pas à s'affronter en utilisant leurs armements conventionnelles? L'hypothèse n'est pas à exclure, mais elle paraît peu probable, compte tenu des risques d'escalade pouvant conduire à une guerre nucléaire.

Guerre dans le Pacifique et en mer de Chine

La situation de paix armée, aussi fragile qu'elle soit, s'étant établie entre les USA et la Russie, ainsi qu'entre leurs alliées en Europe, se retrouvera-t-elle aux frontières occidentale de l'Empire américain, c'est-à-dire dans le Pacifique? Cette partie du monde voit s'affronter dorénavant deux coalitions armées, l'une menée par les USA et comptant de nombreux alliés puissants, notamment le Japon. L'autre menée par la Chine, comptant certains alliés asiatiques et potentiellement l'appui de la Russie, également puissance sur le Pacifique.

Pourquoi y aurait-il rivalité voire guerre entre les USA et la Chine dans le Pacifique? Pourquoi pas des partages d'influences? Pour une raison simple. De tels partages ne peuvent pas résulter d'une réflexion rationnelle au sein des blocs. Chacun pousse à l'expansion et le cas échéant à la guerre, laquelle bénéficie aux CMI respectifs. Le partage ne peut que résulter d'une paix armée.

 

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Aujourd'hui, les USA semblent les mieux armés dans le Pacifique et en mer de Chine. La Chine a hérité de nombreuses faiblesses la rendant dépendante: nécessité d'accès aux routes de navigation, retard technologiques notamment en matière d'armements, facteurs internes tels que l'état sanitaire d'un bon quart de sa population. Néanmoins, elle a pris conscience de ces retards et s'efforce de les réduire. Autrement dit, elle ne se comporta pas comme l'ancien Empire impérial qui avait au 19e siècle pratiquement capitulé devant l'occident.

Pour être capable de peser dans la recherche d'un équilibre de paix armée, elle doit donc se doter d'un armement compétitif vis a vis des USA. Laissons à nouveau de côté le recours à l'arme nucléaire, au moins en première frappe, peu probable également de la part des USA car pouvant très vite mener à l'escalade. Il faut donc que la Chine perfectionne son armement conventionnel. Faute de temps et de moyens, elle ne peut pas le faire dans le domaine des grands porte-avions d'attaque. Non plus que dans le domaine des grands sous-marins nucléaires d'attaque. En termes de porte-avions, elle ne dispose que d'une seule unité, le Liaoning, actuellement utilisé pour des tâches de formation et de démonstration – comme la récente invitation faite à une délégation navale américaine le 21 octobre.

Il semble donc qu'elle se soit intéressée à la mise en place de sous-marins diesels dont les Russes ont développé une version très performance, ceux de la classe dite Kilo, dont ils ont concédé la licence à la Chine. La Chine a l'intention d'en construire dorénavant de nombreux exemplaires, complétant ceux de la classe Song, plus anciens. Pour une charge totale de 1800 tonnes,les Kilo embarquent 60 marins pouvant utiliser 6 tubes lance torpilles.

 

Opérant en « meutes » comme du temps de la Kriegsmarine, ils devraient pouvoir neutraliser un Carrier group. Encore faudrait-il que la Chine ait le temps et les moyens pour en construire un nombre suffisant, bien plus grand que la douzaine d'exemplaires dont elle dispose aujourd'hui.

Par ailleurs, comme la Russie, et sans doute avec la collaboration de celle-ci, la Chine a développé des missiles de croisière dernière génération capables d'être lancés à partir d'un sous-marin. Elle annonce également, comme la Russie, une gamme de systèmes évoluées de guidage ainsi que de systèmes de protection contre les moyens électroniques de l'adversaire. Il est difficile cependant de juger de l'état de maturité de ces systèmes, comme du nombre et de la rapidité de production prévisibles, car elle communique peu sur ces questions. Concernant les missiles, citons le missile antibunker DF15B, le missile DF-16, d'une portée de 1 000 kilomètres, et le missile antinavire DF-21D, d'une portée de 2 500 kilomètres, capable de transporter une ogive nucléaire.

Les futurs avions de 5e génération chinois, si l'on en croit les annonces, semblent par ailleurs pouvoir rivaliser, comme ceux des Russes, avec ceux des Américains. Le plus connu est le Chengdu J-20, développé par le constructeur Chengdu Aircraft Corp. D'autant plus que ceux-ci ont pris, avec le JSF F35, du fait d'erreurs incompréhensibles de leur CMI rappelé ci-dessus, un retard certain, se révélant actuellement en Syrie.

Ajoutons que sur le plan de l'armement terrestre, les Chinois, comme les Russes et peut-même davantage ont mis au point des systèmes évolués d'armement des fantassins, des blindés et de la guerre terrestre en réseau. Les Américains, d'ores et déjà, n'auraient aucune chance de réussir des opérations terrestres comme celles menées durant la guerre de Corée et au Vietnam.

Partages d'influence

Que conclure de ce qui précède au regard de l'escalade que mènent Américains et Japonais concernant la « liberté de navigation » autour des iles Senkaku et plus au sud,  des récifs désormais fortifiés du Cuateron Reef et du Johnson South Reef dans les iles Spratly. Pékin insiste sur le fait qu'il a des droits souverains sur quasiment l'ensemble de la mer de Chine méridionale, y compris près des côtes des Etats voisins, supposés être des alliés des Etats-Unis.

Aujourd'hui, si les USA y envoient des porte-avions d'attaque, comme ils ont annoncé vouloir le faire, les Chinois ne seraient pas sans doute en état de résister. Ils seraient donc obligés de laisser faire. Mais ceci pourrait ne pas durer très longtemps, avant qu'ils ne reviennent en force dans l'ensemble de la mer de Chine méridionale, et ceci avec des moyens militaires tels que les USA et leurs alliés ne pourraient pas s'y opposer de façon efficace, sauf à provoquer une guerre de grande ampleur, avec des milliers de morts de part et d'autre.

Alors il faudrait bien que des zones de partage d'influence faisant une large place à la Chine s'établissent en mer de Chine et plus généralement dans le Pacifique. Ceci serait alors un nouveau coup porté à la suprématie de l'Empire, cette fois-ci dans une partie du monde où ils se croyaient jusqu'ici les maîtres absolus.

Le concept de Brics, reposant sur une large alliance stratégique entre la Russie et la Chine, deviendrait une réalité indiscutable. Répétons le une nouvelle fois: que les Européens y réfléchissent et ne restent pas en dehors des Brics.

 

Jean Paul Baquiast

Les djihadistes de l’EI se sont rassemblés pour une Invasion MASSIVE de l’Asie Centrale

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Renseignements russes : Les djihadistes de l’EI se sont rassemblés pour une Invasion MASSIVE de l’Asie Centrale

Auteur : Nick Gutteridge
Traduction Laurent Freeman
Ex: http://zejournal.mobi

Un grand nombre de combattants islamistes se sont rassemblés au nord de la frontière afghane et se préparent à entrer dans les états voisins, ont révélé des agents des services de renseignement russes.

L’espion moscovite en chef, Alexander Bortnikov, a mis en garde les Talibans, des combattants, dont beaucoup ont prêté allégeance à l’Etat Islamique, qui sont lourdement armés et préparés à pénétrer la frontière poreuse.

S’adressant à un congrès des services spéciaux des Etats Indépendants du Commonwealth, il a dit:

« La communauté internationale fait désormais face à un nouveau challenge géopolitique, un groupe criminel international du nom de l’Etat Islamique. »

« Ce projet, qui est la progéniture même du ‘Printemps Arabe’, a obtenu son élan à cause du deux poids deux mesures de certains pouvoirs mondiaux et régionaux, en utilisant ‘un proxy terroriste ravageur’ pour qu’ils atteignent leurs objectifs stratégiques en Asie et en Afrique ».

« Selon nos propres estimations, les citoyens de plus de 100 pays différents se battent actuellement dans les différents rangs de ces structures terroristes variées et les jeunes recrues représentent 40% de leurs forces ».

« L’escalade des tensions en Afghanistan a provoqué de graves dangers. Il y a de nombreux groupes criminels au sein du mouvement taliban au nord de ce pays en ce moment-même. Certains d’entre eux ont également commencé à opérer sous les ordres de l’Etat islamique, ce qui amène à une montée critique du niveau de menaces terroristes d’une potentielle invasion de l’Asie centrale ».

Le groupe de djihadistes haineux pourrait essayer de se frayer un chemin au nord de l’Afghanistan après avoir essuyé plusieurs raids aériens meurtriers de la Russie.

L’invasion serait comme un coup bas pour Vladimir Poutine, car elle emporterait avec elle plusieurs régions de l’ex-URSS à savoir le Turkménistan, l’Ouzbékistan, le Tadjikistan, qui sont toujours en bon terme avec Moscou.

Ils prendraient ainsi le contrôle des champs d’opium en Afghanistan qui sont entretenus par les forces occidentales. Une manne qui renforcerait l’Etat Islamique, car le produit une fois transformé en héroïne, serait revendu dans les rues européennes ou américaines.

L’Etat Islamique n’a cherché qu’à accroître sa présence en Asie et n’a cessé de recevoir du soutien de plusieurs cellules islamistes indiennes, pakistanaises et malaisiennes.

Tôt ce mois-ci, Poutine a dénoncé la situation en Afghanistan comme étant « proche du seuil critique » et a appelé les nations de l’ex Union Soviétique à se préparer à agir à l’unisson pour contrer une potentielle attaque de l’Etat Islamique.

Les fous islamistes ont été usés par les bombardements aériens russes et occidentaux, ce qui a amené plusieurs experts à reconnaître que leur économie est en panne et que leur structure de commande est sur le point de disparaître.

Les djihadistes ont précédemment annoncé leur intention de conquérir le monde et de soumettre tous les êtres humains à une seule idéologie, la loi de la Charia.

vendredi, 30 octobre 2015

Diplomaţia lui Stalin

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Diplomaţia lui Stalin

Istoria secolului nostru este învăţată din punctul de vedere american. La fel este şi în cazul celui de-al doilea Război Mondial, al Războiului Rece şi al Războiului din Golf. În optica americană, secolul XXI este “secolul american”, în care trebuie să se instaleze şi să se menţină o ordine mondială conform cu interesele americane, secol care este simultan “sfârşitul istoriei”, sfârşitul aventurii umane, sinteza definitivă a dialecticii istoriei. Francis Fukuyama, chiar înainte de războiul din Golf, afirma că odată cu căderea Cortinei de Fier şi sfârşitul “hegelianismului de stânga” pe care îl reprezenta URSS-ul, un singur model, cel al liberalismului american, va subzista secole de-a rândul. Cu condiţia ca niciun competitor să nu se zărească la orizont. De unde misiunea americană era aceea de a reacţiona rapid, mobilizând maximum de mijloace, contra oricărei veleităţi de a construi o ordine politică alternativă.

Cu câţiva ani înainte de Fukuyama, un autor germano-american, Theodore H. von Laue, pretindea că singura revoluţie veritabilă în lume şi în istorie era aceea a occidentalizării şi că toate revoluţiile politice non-occidentaliste, toate regimurile bazate pe alte principii decât cele în vogă în America, erau relicve ale trecutului, pe care numai nişte reacţionari perverşi le puteau adula, reacţionari pe care puterea americană, economică şi militară, urma să le măture rapid pentru a face loc unui hiper-liberalism de factură anglo-saxonă, debarasat de orice concurenţă.

Dacă hitlerismul este în mod general considerat ca o forţă reacţionară perversă faţă de care America a contribuit la eliminarea din Europa, se ştiu mai puţin motivele care l-au împins pe Truman şi pe protagoniştii atlantişti ai Războiului Rece să lupte contra stalinismului şi să facă din el un căpcăun ideologic, considerat explicit de către von Laue drept „reacţionar” în ciuda etichetei sale proprii de „progresist”. Această ambiguitate faţă de Stalin se explică prin alianţa americano-sovietică în timpul celui de-al Doilea Război mondial, când Stalin era supranumit în mod prietenos “Uncle Joe”. Cu toate acestea, de câţiva ani, numeroşi istorici revăd în mod inteligent poncifele pe care patruzeci şi cinci de ani de atlantism furibund le-au vehiculat în mass-media şi în cărţile noastre de istorie. Germanul Dirk Bavendamm a demonstrat în două lucrări meticuloase şi precise care au fost responsabilităţile lui Roosevelt în declanşarea conflictelor americano-japonez şi americano-german şi de asemenea care era duplicitatea preşedintelui american faţă de aliaţii săi ruşi. Valentin Falin, fostul ambasador al URSS-ului la Bonn, a publicat în Germania o lucrare de amintiri istorice şi de reflecţii istoriografice, în care acest briliant diplomat rus afirmă că Războiul Rece a început imediat după debarcarea anglo-americană din iunie 1944 pe plajele din Normandia: desfăşurându-şi armada lor navală şi aeriană, puterile occidentale duceau deja un război mai ales contra Uniunii Sovietice şi nu contra Germaniei muribunde.

O lectură atentă a mai multor lucrări recente consacrate multiplelor aspecte ale rezistenţei germane contra regimului hitlerist ne obligă să renunţăm definitiv la interpretarea istoriei celui de-al Doilea Război mondial şi a alianţei anglo-americano-sovietice după modelul convenţional. Ostilitatea faţă de Stalin după 1945 provine mai ales din faptul că Stalin înţelegea să practice o diplomaţie generală bazată pe relaţiile bilaterale între naţiuni, fără ca acestea să fie supervizate de o instanţă universală cum ar fi ONU. Apoi, după ce şi-a dat seama că cele două puteri anglo-saxone deciseseră singure la Casablanca să facă războiul excesiv cu Reich-ul, să declanşeze războiul total şi să ceară capitularea fără condiţii a Germaniei naţional-socialiste, Stalin s-a simţit exclus de aliaţii săi. Furios, el şi-a concentrat mânia în această frază bine ticluită, în aparenţă anodină, dar foarte semnificativă: „Hitlerii vin şi se duc, poporul şi statul german rămân”. Stalin nu considera naţional-socialismul hitlerist ca pe răul absolut sau chiar ca pe o esenţă netrecătoare, ci ca pe un accident al istoriei, o vicisitudine potrivnică Rusiei eterne, pe care armatele sovietice urmau pur şi simplu să caute s-o elimine. Dar, în logica diplomatică tradiţională, care îi aparţinea lui Stalin, în ciuda ideologiei mesianice marxiste, naţiunile nu pier: nu trebuie prin urmare să ceri o capitulare necondiţionată şi trebuie mereu să laşi poarta deschisă unor negocieri. În plin război, alianţele se pot schimba cu totul, aşa cum o arată clar istoria europeană. Stalin se mulţumeşte să ceară deschiderea unui al doilea front pentru a uşura misiunea armatelor sovietice şi a diminua pierderile de vieţi omeneşti în rândul ruşilor, dar acest front nu vine decât foarte târziu, ceea ce-i permite lui Valentin Falin să explice această întârziere ca pe primul act al Războiului Rece între puterile maritime anglo-saxone şi puterea continentală sovietică.

Această reticenţă a lui Stalin se explică şi prin contextul care a precedat imediat epilogul lungii bătălii de la Stalingrad şi debarcarea anglo-saxonă în Normandia. Când armatele lui Hitler şi ale aliaţilor săi slovaci, finlandezi, români şi unguri au intrat în URSS în 22 iunie 1941, sovieticii, oficial, au estimat că clauzele Pactului Molotov/Ribbentrop au fost trădate şi, în toamna lui 1942, după gigantica ofensivă victorioasă a armatelor germane în direcţia Caucazului, Moscova a fost constrânsă să sondeze adversarul său în vederea unei eventuale păci separate: Stalin dorea să se revină la termenii Pactului şi conta pe ajutorul japonezilor pentru a reconstitui, în masa continentală eurasiatică, acel „car cu patru cai” pe care i-l propusese Ribbentrop în septembrie 1940 (sau „Pactul Cvadripartit” între Reich, Italia, URSS şi Japonia). Stalin dorea o pace nulă: Wehrmacht-ul să se retragă dincolo de frontiera fixată de comun acord în 1939 şi URSS-ul să-şi panseze rănile. Mai mulţi agenţi au participat la aceste negocieri, ce au rămas în general secrete. Printre ei, Peter Kleist, ataşat în acelaşi timp de Cabinetul lui Ribbentrop şi de „Biroul Rosenberg”. Kleist, naţionalist german de tradiţie rusofilă în amintirea prieteniei dintre Prusia şi Ţari, va negocia la Stockholm, unde jocul diplomatic va fi strâns şi complex. În capitala suedeză, ruşii sunt deschişi la toate sugestiile; printre ei, ambasadoarea Kollontaï şi diplomatul Semionov. Kleist acţionează în numele Cabinetului Ribbentrop şi al Abwehr-ului lui Canaris (şi nu al „Biroului Rosenberg” care avea în vedere o balcanizare a URSS-ului şi crearea unui puternic stat ucrainean pentru a contrabalansa „Moscovia”). Al doilea protagonist al părţii germane a fost Edgar Klaus, un evreu din Riga care făcea legătura între sovietici şi Abwehr (el nu avea relaţii directe cu instanţele propriu-zis naţional socialiste).

În acest joc mai mult sau mai puţin triangular, sovieticii doreau revenirea la status-quo-ul de dinainte de 1939. Hitler a refuzat toate sugestiile lui Kleist şi a crezut că poate câştiga definitiv bătălia prin cucerirea Stalingradului, cheie a fluviului Volga, a Caucazului şi a Caspicii. Kleist, care ştia că o încetare a ostilităţilor cu Rusia ar fi permis Germaniei să rămână dominantă în Europa şi să-şi îndrepte toate forţele contra britanicilor şi americanilor, trece atunci de partea elementelor active ale rezistenţei anti-hitleriene, chiar dacă este personal dator instanţelor naţional-socialiste! Kleist îi contactează deci pe Adam von Trott zu Solz şi pe fostul ambasador al Reich-ului la Moscova, von der Schulenburg. El nu se adresează comuniştilor şi estimează, fără îndoială odată cu Canaris, că negocierile cu Stalin vor permite realizarea Europei lui Coudenhove-Kalergi (fără Anglia şi fără Rusia), pe care o visau de asemenea şi catolicii. Dar sovieticii nu se adresează nici ei aliaţilor lor teoretici şi privilegiaţi, comuniştii germani: ei pariază pe vechea gardă aristocratică, unde exista încă amintirea alianţei prusacilor şi ruşilor contra lui Napoleon, ca şi cea a neutralităţii tacite a germanilor în timpul Războiului Crimeii. Cum Hitler refuză orice negociere, Stalin, rezistenţa aristocratică, Abwehr-ul şi chiar o parte a gărzii sale pretoriene, SS-ul, decid că el trebuie să dispară. Aici trebuie văzută originea complotului care va duce la atentatul din 20 iulie 1944.

Dar după iarna lui 42-43, sovieticii au revenit la Stalingrad şi au distrus vârful de lance al Wehrmacht-ului, armata a şasea, care încercuia metropola de pe Volga. Partida germană a sovieticilor va fi atunci constituită de „Comitetul Germania Liberă”, cu mareşalul von Paulus şi cu ofiţeri ca von Seydlitz-Kurzbach, toţi prizonieri de război. Stalin nu avea în continuare încredere în comuniştii germani, din rândul cărora a eliminat ideologii nerealişti şi revoluţionarii maximalişti troţkişti, care au ignorat mereu deliberat, din orbire ideologică, noţiunea de „patrie” şi continuităţile istorice multiseculare; finalmente, dictatorul georgian nu l-a păstrat în rezervă, ca bun la toate, decât pe Pieck, un militant care nu şi-a pus niciodată prea multe întrebări. Pieck va face carieră în viitoarea RDG. Stalin nu visa nici un regim comunist pentru Germania post-hitleriană: el dorea o „ordine democratică forte”, cu o putere executivă mai marcată decât sub Republica de la Weimar. Această dorinţă politică a lui Stalin corespunde perfect alegerii sale iniţiale: pariul pe elitele militare, diplomatice şi politice conservatoare, provenind în majoritate din aristocraţie şi din Obrigkeitsstaat-ul[1] prusac. Democraţia germană, care trebuia să vină după Hitler, în opinia lui Stalin, urma să fie de ideologie conservatoare, cu o fluiditate democratică controlată, canalizată şi încadrată de un sistem de educaţie politică strictă.

Britanicii şi americanii au fost surprinşi: ei crezuseră că „Unchiul Joe” va înghiţi fără probleme politica lor maximalistă, ruptă total de uzanţele democratice în vigoare în Europa. Dar Stalin, ca şi Papa şi Bell, episcopul de Chichester, se opuneau principiului revoluţionar al predării necondiţionate pe care Churchill şi Roosevelt au vrut s-o impună Reich-ului (care va rămâne, cum gândea Stalin, în calitate de principiu politic în ciuda prezenţei efemere a unui Hitler). Dacă Roosevelt, făcând apel la dictatura mediatică pe care o controla bine în Statele Unite, a reuşit să-şi reducă adversarii la tăcere, indiferent de ideologie, Churchill a avut mai mari dificultăţi în Anglia. Principalul său adversar era acest Bell, episcop de Chichester. Pentru acesta din urmă, nu se punea problema de a reduce Germania la neant, căci Germania era patria lui Luther şi a protestantismului. Filosofiei predării necondiţionate a lui Churchill, Bell îi opunea noţiunea unei solidarităţi protestante şi-i punea în gardă pe omologii săi olandezi, danezi, norvegieni şi suedezi, ca şi pe interlocutorii săi din rezistenţa germană (Bonhoeffer, Schönfeld, von Moltke), pentru a face faţă belicismului exagerat al lui Churchill, care se exprima prin bombardarea masivă a obiectivelor civile, chiar şi în oraşe mici fără infrastructură industrială importantă. Pentru Bell, viitorul Germaniei nu era nici nazismul nici comunismul, ci o „ordine liberală şi democratică”. Această soluţie, preconizată de episcopul de Chichester, nu era evident acceptabilă de către naţionalismul german tradiţional: ea constituia o întoarcere subtilă la Kleinstaaterei, la mozaicul de state, principate şi ducate, pe care viziunile lui List, Wagner etc. şi pumnul lui Bismarck le şterseseră din centrul continentului nostru. „Ordinea democratică forte” sugerată de Stalin era mai acceptabilă pentru naţionaliştii germani, al căror obiectiv a fost mereu crearea unor instituţii şi a unei paidei puternice pentru a proteja poporul german, substanţa etnică germană, de propriile sale slăbiciuni politice, de lipsa simţului său de decizie, de particularismul său atavic şi de durerile sale morale incapacitante. Astăzi, evident, mulţi observatori naţionalişti constată că federalismul constituţiei din 1949 se înscrie poate destul de bine în tradiţia juridică constituţională germană, dar forma pe care a luat-o, în cursul istoriei RFG-ului, îi relevă natura sa de „concesie”. O concesie a puterilor anglo-saxone…

 

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În faţa adversarilor capitulării necondiţionate din sânul coaliţiei antihitleriste, rezistenţa germană a rămas în ambiguitate: Beck şi von Hassel sunt pro-occidentali şi vor să urmeze cruciada anti-bolşevică, dar într-un sens creştin; Goerdeler şi von der Schulenburg sunt în favoarea unei păci separate cu Stalin. Claus von Stauffenberg, autorul atentatului din 20 iulie 1944 contra lui Hitler, provenea din cercurile poetico-ezoterice din München, unde poetul Stefan George juca un rol preponderent. Stauffenberg este un idealist, un „cavaler al Germaniei secrete”: el refuză să dialogheze cu „Comitetul Germania Liberă” al lui von Paulus şi von Seydlitz-Kurzbach: „nu putem avea încredere în proclamaţiile făcute din spatele sârmei ghimpate”.

Adepţii unei păci separate cu Stalin, adversari ai deschiderii unui front spre Est, au fost imediat atenţi la propunerile de pace sovietice emise de agenţii la post în Stockholm. Partizanii unei „partide nule” la Est sunt ideologic „anti-occidentali”, aparţinând cercurilor conservatoare rusofile (cum ar fi Juni-Klub sau acei Jungkonservativen din siajul lui Moeller van den Bruck), ligilor naţional-revoluţionare derivate din Wandervogel sau „naţionalismului soldăţesc”. Speranţa lor era de a vedea Wehrmacht-ul retrăgându-se în ordine din teritoriile cucerite în URSS şi de a se replia dincolo de linia de demarcaţie din octombrie 1939 în Polonia. În acest sens interpretează exegeţii contemporani ai operei lui Ernst Jünger faimosul său text de război intitulat „Note caucaziene”. Ernst Jünger percepe aici dificultăţile de a stabiliza un front în imensele stepe de dincolo de Don, unde gigantismul teritoriului interzice o reţea militară ermetică ca într-un peisaj central-european sau de tip picard-champenoise, muncit şi răsmuncit de generaţii şi generaţii de mici ţărani încăpăţânaţi care au ţesut teritoriul cu îngrădituri, proprietăţi, garduri şi construcţii de o rară densitate, permiţând armatelor să se prindă de teren, să se disimuleze sau să întindă ambuscade. Este foarte probabil ca Jünger să fi pledat pentru retragerea  Wehrmacht-ului, sperând, în logica naţional-revoluţionară, care îi era proprie în anii 20 sau 30, şi unde rusofilia politico-diplomatică era foarte prezentă, ca forţele ruseşti şi germane, reconciliate, să interzică pentru totdeauna accesul în „Fortăreaţa Europa”, chiar în „Fortăreaţa Eurasia” puterilor talasocratice, care practică sistematic ceea ce Haushofer numea „politica anacondei”, pentru a sufoca orice veleitate de independenţă pe marginile litorale ale „Marelui Continent” (Europa, India, ţările arabe etc.).

Ernst Jünger redactează notele sale caucaziene în momentul în care Stalingradul cade şi armata a şasea este înecată în sânge, oroare şi zăpadă. Dar în ciuda victoriei de la Stalingrad, care le permite sovieticilor să bareze calea spre Caucaz şi Marea Caspică germanilor şi să impiedice orice manevră în amontele fluviului, Stalin urmează mai departe negocierile sale sperând în continuare să joace o „partidă nulă”. Sovieticii nu pun un termen demersurilor lor decât după întrevederile de la Teheran (28 noimebrie – 1 decembrie 1943). În acel moment, Jünger pare a se fi retras din rezistenţă. În celebrul său interviu din Spiegel din 1982, imediat după ce primise premiul Goethe la Frankfurt, el declara: „Atentatele întăresc regimurile pe care vor să le dărâme, mai ales dacă sunt ratate”. Jünger, fără îndoială ca şi Rommel, refuza logica atentatului. Ceea ce nu a fost cazul cu Claus von Stauffenberg. Deciziile luate de către aliaţii occidentali şi de către sovietici la Teheran au făcut imposibilă revenirea la punctul de pornire, adică la linia de demarcaţie din octombrie 1939 în Polonia. Sovieticii şi anglo-saxonii s-au pus de acord să „transporte dulapul polonez” spre Vest prin cedarea unei zone de ocupaţie permanentă în Silezia şi în Pomerania. În atari condiţii, naţionaliştii germani nu mai puteau negocia iar Stalin era din oficiu prins în logica maximalistă a lui Roosevelt, în vreme ce la început o refuzase. Poporul rus urma să plătească foarte scump această schimbare de politică, favorabilă americanilor.

După 1945, constatând că logica Războiului Rece vizează încercuirea şi izolarea Uniunii Sovietice pentru a o împiedica să ajungă la mările calde, Stalin a reiterat oferta sa Germaniei epuizate şi divizate: unificarea şi neutralitatea, adică libertatea de a-şi alege regimul politic după placul său, mai ales o „ordine democratică forte”. Acesta va fi obiectul „notelor lui Stalin” din 1952. Decesul prematur al Vojd-ului sovietic în 1953 nu a mai permis URSS-ului să continue să joace această carte germană. Hruşciov a denunţat stalinismul, a apăsat pe logica blocurilor pe care Stalin o refuzase şi nu a revenit la antiamericanism decât în momentul afacerii Berlinului (1961) şi a crizei din Cuba (1962). Nu se va mai vorbi despre „notele lui Stalin” decât înainte de perestroika, în timpul manifestaţiilor pacifiste din 1980-1983, când mai multe voci germane au reclamat afirmarea unei neutralităţi în afara oricărei logici de tip bloc. Unii emisari ai lui Gorbaciov vor mai vorbi despre acele note şi după 1985, mai ales germanistul Viatcheslav Dachitchev, care a luat cuvântul peste tot în Germania, chiar şi în câteva cercuri ultra-naţionaliste.

În lumina acestei noi istorii a rezistenţei germane şi a belicismului american, putem să înţelegem într-un mod diferit stalinismul şi anti-stalinismul. Acesta din urmă, de exemplu, serveşte la răspândirea unei mitologii politice false şi artificiale, al cărei obiectiv ultim este să respingă orice formă de concert internaţional bazat pe relaţiile bilaterale, să impună o logică a blocurilor sau o logică mondialistă prin intermediul acestui instrument rooseveltian care este ONU (Coreea, Congo, Irak: mereu fără Rusia!), să stigmatizeze din start orice raport bilateral între o putere medie europeană şi Rusia sovietică (Germania în 1952 şi Franţa lui De Gaulle după evenimentele din Algeria). Antistalinismul este o variantă a discursului mondialist. Diplomaţia stalinistă era, în felul ei şi într-un context foarte particular, păstrătoare a tradiţiilor diplomatice europene.

Bibliografie:

– Dirk BAVENDAMM, Roosevelts Weg zum Krieg. Amerikanische Politik 1914-1939, Herbig, München, 1983.

– Dirk BAVENDAMM, Roosevelts Krieg 1937-45 und das Rätsel von Pearl Harbour, Herbig, München, 1993.

– Valentin FALIN, Zweite Front. Die Interessenkonflikte in der Anti-Hitler-Koalition, Droemer-Knaur, München, 1995.

– Francis FUKUYAMA, La fin de l’histoire et le dernier homme, Flammarion, 1992.

– Klemens von KLEMPERER, German Resistance Against Hitler. The Search for Allies Abroad. 1938-1945,  Oxford University Press/Clarendon Press, 1992-94.

– Theodore H. von LAUE, The World Revolution of Westernization. The Twentieth Century in Global Perspective,  Oxford University Press, 1987.

– Jürgen SCHMÄDEKE/Peter STEINBACH (Hrsg.), Der Widerstand gegen den National-Sozialismus. Die deutsche Gesellschaft und der Widerstand gegen Hitler,  Piper (SP n°1923), München, 1994.

Traducere: Vladimir Muscalu

Sursa: http://robertsteuckers.blogspot.ro/2011/12/normal-0-21-false-false-false_29.html

[1] Statul autoritar (n. tr.)

jeudi, 29 octobre 2015

Cuba libéré ou Cuba enchaîné demain à l'argent?

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Cuba libéré ou Cuba enchaîné demain à l'argent?
Michel Lhomme
Ex: http://metamag.fr

Nous n'en aurons jamais fini avec la liberté et la confusion du libéralisme philosophique, du libéralisme politique et du libéralisme économique et nous ne saurions le trancher si facilement. L'économiste américain Milton Friedman soulignait que, dans une société, les arrangements économiques jouaient un double rôle dans la promotion de la liberté politique parce que premièrement, les libertés économiques sont une composante essentielle des libertés individuelles et que par là-même, elles devraient être une fin en soi du politique et que deuxièmement, les libertés économiques sont aussi le moyen indispensable pour parvenir au libre-arbitre. Ainsi alors que pour beaucoup, les chemins de la liberté économique et de la liberté politique divergent et ne sont pas fondamentalement les mêmes, nous parlons d'une seule et même liberté. Choisir de produire sans coercition et sans aucune entrave, choisir de travailler et de financer sans règle, c'est effectivement une position foncièrement différente de la décision sur laquelle s'appuie l'Etat dans son programme politique autoritaire pour prélever l'impôt et les taxes. Nous nous retrouvons dans la pince de la « global-invasion ».


Cuba , le nouvel eldorado ?


Prenons Cuba. Cuba se libéralise mais Cuba n'est pas libéré. Le sera-t-il d'ailleurs un jour lorsqu'il sera totalement devenu capitaliste c'est-à-dire « libéral » au sens économique du terme ? La griffe française de luxe Chanel vient d'annoncer qu'elle présentera sa collection « croisière » du printemps, le 3 mai prochain, pour la première fois en Amérique Latine et pas n'importe où, puisque Chanel défilera à Cuba, l'île communiste qui vient de normaliser ses relations avec les Etats-Unis. Chanel va donc faire défiler à la Havane des filles vêtues de robes légères de luxe et autres tweeds ou maillots de bain à plusieurs milliers d'euros à Cuba, là où sur le Malecon, on se prostitue gayment pour finir les fins de mois de ! Une première pour la maison de luxe parisienne, qui n'avait même jamais organisé de show en Amérique latine et un choix plutôt étonnant sachant que la Maison de la rue Cambon ne possède pas de boutique à Cuba. C'est que la levée de l'embargo américain sur Cuba cet été, et le réchauffement des relations d'affaires avec le « bloc capitaliste », fait depuis quelque temps la joie des entreprises, en particulier françaises . Des fleurons hexagonaux des biotechnologies comme les alcools français profitent déjà de l'ouverture de Cuba aux échanges internationaux, un Cuba devenu en quelques mois le nouvel eldorado du business. 


Depuis cinq décennies, la perle des Caraïbes est sous l'emprise de la dictature communiste qui a plongé le peuple cubain dans un ostracisme international devenu avec le temps de plus en plus anachronique. Cuba, une île paradisiaque où deux frères « blancs » dans un pays nègre ou de métis, les frères Castro décident pratiquement de tous les aspects de la vie sur l'île et où la seule contestation possible s'appelle  « dissidence » puisque toute critique ouverte du régime y demeure interdite. Malgré cela, l'administration du président Barack Obama a récemment décidé de reprendre des relations diplomatiques avec Cuba, avec la volonté avouée de se réconcilier avec les latinos qui sont d'un poids électoral non négligeable pour les élections présidentielles américaines. Obama rêve aussi de laisser derrière lui avant de quitter la Maison Blanche les années d'embargo économique de Cuba comme l'image sépia d'un vieux cauchemar ridicule. La décision est historique pour une administration Obama quelque peu affaiblie actuellement par les problèmes afghans (le bombardement de l'hôpital de Médecins sans frontières) et l'offensive russe en Syrie. Mais de quelle libéralisation cubaine parle-t-on puisque la libéralisation économique de Cuba ne semble modifier en rien la nature du régime cubain ? Pire, le vieux Fidel, El lider maximo semble même en tirer les marrons du feu. C'est en tout cas ce qu'on entend beaucoup en ce moment dans les milieux des exilés de Miami même si Danilo Maldonado, le dernier prisonnier de conscience cubain a été libéré ce mardi 20 octobre.


L'échec des politiques d'embargo 

En fait, l'assouplissement des conditions économiques à Cuba ne sera pas suffisant pour mobiliser l'île vers la démocratie réelle. La libéralisation économique ne garantit pas la liberté politique. Il nous faut donc cocher négativement Friedman et tirer d'ailleurs les leçons du modèle chinois de l'« économie socialiste de marché » et de l'oxymore du « communisme libéral ». En tout cas, Cuba confirme une autre loi politique, l'échec manifeste des politiques d'embargo. L'embargo rend en réalité plus fort celui que l'on veut affaiblir. Pour avoir prétendument affaibli matériellement le gouvernement cubain depuis le milieu du siècle dernier, Cuba est toujours là. Certes, l'embargo américain a sapé durant des décennies l'économie des familles cubaines, les a maintenues dans une pauvreté scandaleuse mais l'embargo a aussi fourni à Castro et au régime cubain le moyen de se maintenir en justifiant ses piètres performances économiques en tant que gouvernant par l'affermissement de son patriotisme, la défense de la grande cause de l'unité nationale et de la lutte héroïque contre l'«ennemi extérieur». Il est curieux que les Etats-Unis n'ait tiré aucune leçon de Cuba reproduisant ainsi les mêmes erreurs mais à une toute autre échelle aujourd'hui avec la Russie de Vladimir Poutine.

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Ainsi, timidement, certaines réformes amènent Cuba à une plus grande liberté dans le domaine économique. La téléphonie mobile presque inexistante jusqu'à récemment aurait déjà dépassé trois millions d'utilisateurs. Les marchés de l'automobile et de l'immobilier sont devenus plus ouverts et en 2015, plus de 3000 restaurants sont passés en gestion privée. L'espoir demeure que ces changements en matière économique permettent rapidement une prise de conscience des citoyens cubains vers l'obtention de plus de droits civils, et éventuellement une demande de réforme et de transformation politique. Mais en réalité les Américains le veulent-ils vraiment ? N'est-il pas préférable en effet de commercer à La Havane avec des Cubains blancs et sans parole politique ?


Paradoxalement, les assouplissements des règles de l'économie cubaine offrent un répit inattendu à la dictature de Castro qui en arrive même à légitimer son pouvoir par un slogan gauchiste pour ne pas dire bolchévique dans le genre « la liberté dans l'ordre », en quelque sorte la règle et même l'étalon du pouvoir capitaliste. Or, après plus d'un demi-siècle de régime communiste et toutes les tentatives extérieures, comme celles des exilés de Miami, d'étouffer sans succès l'administration cubaine, il faudrait « hacker », pirater Cuba, redoubler d'astuces pour permettre aux jeunes cubains de se donner les moyens d'échanger des idées, d'organiser et de progresser dans la voie d'un renversement politique du régime qui maintiendrait comme priorité la défense de leur identité. Cuba est l'un des derniers territoires de la planète non connecté, l'internet y est extrêmement limité et surtout pas libre à tel point que l'île est surnommée « l'île des déconnectés ». L'autonomie cubaine ne peut pas être qu'économique. Elle exige le politique, la représentativité populaire mais elle réclame aussi l'Etat et non sa suppression afin de contrer le rêve capitaliste d'en faire un gigantesque paquebot de croisière terrestre.  En réalité, l'Etat préserve les libertés, protège les individus contre ceux, les prédateurs, entrepreneurs et financiers, tous les requins du mercantilisme qui souhaitent contraindre les gouvernements au libéralisme économique sans libéralisme philosophique ou politique. La réflexion sur le cas de Cuba et sur beaucoup d'autres, comme la Chine communiste ou même l'assassinat de John F. Kennedy  nous pose ainsi en filigrane une autre question, celle de l'« Etat profond » de Peter Dale Scott, des responsabilités de la finance dans la dilution des Etats mondiaux et de la régulation juridique nécessaire de la mondialisation, l'anarchie libertarienne dans la « global-invasion ». Elle pose la question critique du néo-constitutionnalisme contemporain, de la dilution du droit, de l'extinction du droit dans l'économisme. Le libéralisme économique est ainsi enchaîné à des prémisses telles qu'elles présentent finalement Milton Friedman comme un naïf ou plutôt comme l'idiot utile du système qui ne saurait du coup être capable de reconsidérer métapolitiquement la liberté. Autrement dit et après tout, la vraie mesure de l'avancement politique de nos peuples sera non pas le grand remplacement mais le grand renversement à la manière stylée de la grande révolution cubaine idéalisée par le romantisme révolutionnaire du guérillero et de la lutte armée mais sans la violence des autocrates du prolétariat.


A noter un jeu de société très « cubain » pour petits et grands.

Une catastrophe sanitaire programmée…

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Une catastrophe sanitaire programmée…

 
Anne Lauwaert
Ecrivain belge
Ex: http://www.lesobservateurs.ch

Je vous raconte une histoire belge qui circule sur le net :

"Dans le village flamand de Sijsele il y a un supermarché Lidl. En face il y a un centre pour requérants d’asile. Les pensionnaires du centre pour requérants d’asile vont flâner entre les rayons du supermarché, ouvrent des bouteilles et les boivent, ouvrent des confections et en mangent le contenu et quand ils arrivent à la caisse ils disent “no money”. Alors on appelle la police mais la Croix Rouge intervient pour expliquer que “c’est leur culture”… Alors les habitants de Sijsele ne font plus leurs courses dans leur supermarché Lidl mais vont les faire dans le village voisin de  Moerkerke et les seuls clients qui restent à Sijsele c’est ceux qui ne payent pas…

Un commentateur ajoute “et chez nous ils ouvraient même les pots de confiture et les vidaient comme ça”…

Un autre précise qu’on a engagé un cuisinier mais celui-ci a été refusé, d’ailleurs “la nourriture est trop belge”…

Un autre ajoute qu’ils n’ont ni faim, ni soif mais ce qu’ils veulent c’est de l’argent…

Et vous savez quoi ? Ben, on constate un mécontentement croissant parmi la population… "

 Signé “Wannes”

Une histoire allemande. Ma voisine est allemande et écoute l’heure pendant laquelle les auditeurs peuvent s’exprimer à la radio. Et vous savez quoi? Ben, il y a un médecin qui a dit que les hôpitaux sont bondés et posent la question “qui va payer tout ça?” Mais c’est pas tout, ce médecin dit que ces gens qui arrivent de partout dans les conditions les plus désastreuses apportent avec eux des germes qui peuvent faire réapparaitre chez nous des maladies qui ont été éradiquées grâce à des décennies de soins, campagnes d’hygiène, vaccinations etc.

Les gens commencent à oser en parler…

La santé c’est mon domaine alors je vais y ajouter mon grain de sel. Comme je l’ai raconté dans mon livre “Les oiseaux noirs de Calcutta”, dans les pays du Tiers Monde il y a des maladies endémiques comme la gale ( scabieuse) qui est une maladie de la peau extrêmement contagieuse qui est une véritable calamité quand elle se répand dans une école, un home, un hôpital… à tel point qu’un chirurgien refusait d’hospitaliser les enfants qui en étaient porteurs de peur de contaminer tout le service et de devoir le fermer.

Il y a aussi la tuberculose qui est résistante aux médicaments dont nous disposons. Il y a aussi tout ce qui est amibes, bactéries ou vers intestinaux. A côté de ça le SIDA semble moins grave car c’est une maladie que nous connaissons mieux.

Il y a quelque temps un médecin français expliquait que le tourisme médical voit arriver en France des maladies graves comme des insuffisances rénales qui vont finir par la dialyse et des médicaments à vie mais que, étant donné que dans leur pays d’origine ces gens ne peuvent pas se soigner, il était impossible de les renvoyer chez eux, par contre ils ont  le droit de faire venir leurs familles. Qui paye ? Ca c’est un type de problème. Le problème des maladies importées par les “migrants” est d’un autre type: il s’agit de l’importation de germes qui peuvent produire des contaminations et ensuite des épidémies. Ces gens n’ont pas non plus une constitution physique adaptée à nos conditions de vie, ni à notre environnement climatique.

Voici ma cerise sur notre gâteau: la poliomyélite ou paralysie infantile.

Je ne vais pas vous faire un cours de médecine mais le sujet est tellement grave que je vous recommande chaudement d’aller lire ce que dit Wikipédia de tout ça.

Toujours est-il que quand j’étais à l’école primaire dans mon petit village flamand de Strijtem, en 1952 nous, les petits élèves nous avons été vaccinés contre la polio – j’ai encore ma carte de vaccinations. Depuis, grâce à la vaccination, chez nous, la polio a pratiquement disparu mais il y a eu des épisodes d’épidémies surtout au sein de sectes religieuses qui refusent les vaccinations. J’ai un cousin qui n’avait pas été vacciné, qui a été contaminé, en a gardé des paralysies aux jambes et maintenant à l’âge de 55 ans il souffre d’un syndrome de post polio. C’est là qu’on se rend compte du caractère terrible de la polio car non seulement elle laisse des séquelles graves comme des paralysies, mais elle ne disparait jamais et avec l’âge reprend vigueur et continue la lente destruction les muscles jusqu’à ce que la personne se retrouve en chaise roulante. Pire: si le virus attaque les muscles de la cage thoracique c’est soit le poumon d’acier, soit la mort par asphyxie.

Mais, étant donné que cette maladie a pratiquement disparu chez nous, elle n’est plus enseignée dans les universités et les médecins ne la connaissent pas. Il n’est pas rare que les patients, comme mon cousin,  soient considérés comme des simulateurs… Pendant mes études de physiothérapie j’ai eu la chance d’avoir comme professeurs des kinés qui avaient encore participé à la lutte contre la polio avant la découverte du vaccin.

Puisque la polio ne se rencontre plus, de nombreux parents refusent de faire vacciner leurs enfants. Je suis tout à fait d’accord, les vaccins ne sont pas inoffensifs et il faut bien peser les pours et les contres. Mais en l’occurrence  les conséquences de la polio peuvent être beaucoup plus graves que celles de la coqueluche ou de la grippe.

Actuellement l’OMS a beau se gargarise avec “L’éradication de la polio”, elle n’est pas éradiquée du tout dans le Tiers Monde et par exemple pour un tas de raisons, voir Internet, en Afghanistan les talibans s’en prennent aux vaccinateurs.

Tout ça pour dire que parmi les chercheurs de vie meilleure il va fatalement y avoir des porteurs de germes de toutes sortes mais aussi de la polio et nous ne sommes pas du tout à l’abri d’épidémies, ni préparés à les affronter.

Ce n’est pas leur faute: ces gens ne savent pas d’être porteurs, mais ils peuvent contaminer puisqu’ils circulent dans les transports publics, les magasins, les WC etc. Le pire c’est quand ils ne connaissent pas les règles d’hygiène et ne font pas leurs besoins naturels dans des WC et ne se lavent pas les mains avec du savon…Dans leurs pays … s’ils n’ont pas de quoi acheter à manger, ils n’ont  certainement pas de quoi acheter du savon, serviettes hygiéniques, tampax, ni même des WC ou du papier WC… Ces gens s’essuient avec la main gauche… et mangent avec la main droite…  A Calcutta, dans Park Street, la rue chic, devant la Oxford Library, j’ai vu un monsieur descendre du trottoir, s’accroupir et déféquer. A l’arrêt du bus j’ai vu un jeune homme bien habillé genre employé, s’arrêter et uriner, même pas derrière un arbre, ni un poteau, non comme ça. Ils toussent et crachent tout le temps et partout. Cela signifie une dissémination et une prolifération de germes inimaginable à laquelle nous ne sommes pas préparés, nos hôpitaux non plus, notre assurance maladie non plus. Qu’est ce qui va se passer, qui va payer, comment allons-nous empêcher notre système sanitaire de s’écrouler ? A la limite, allons-nous disposer d’assez de vaccins ?

Pourquoi je vous brosse un tableau aussi effrayant? Parce qu’il faut décider de priorités et la priorité la plus urgente, c’est, avant toute autre chose, d’enseigner à ces personnes les règles d’hygiène pour éviter une catastrophe sanitaire. Il est beaucoup plus urgent qu’ils apprennent à ne pas cracher par terre qu’à parler français. Dans ma profession j’ai appris qu’il faut prévoir le pire pour ne pas être pris au dépourvu. Je ne sais pas si nos gouvernements le font, bien que gouverner ce soit justement…  prévoir. En tous cas je conseille aux parents qui n’ont pas fait vacciner leurs enfants d’en parler avec leur médecin.

Anne Lauwaert

mercredi, 28 octobre 2015

«Europa gibt ein fatales Bild in der Welt ab»

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Jean Asselborn

Ex: http://www.lessentiel.lu

«Europa gibt ein fatales Bild in der Welt ab»

Ein Krisentreffen in Brüssel will Lösungen in der Flüchtlingskrise finden. Doch vor Ort treten gravierende Trennlinien zwischen den EU-Staaten zu Tage.

Die früheren Luxemburger Koalitionspartner Jean Asselborn (l.) und Jean-Claude Juncker sprachen am Sonntag über mögliche Sofortmaßnahmen in der Flüchtlingskrise. (Bild: DPA/Stephanie Lecocq)

Der anhaltende Flüchtlingsandrang stellt Europa vor eine Zerreißprobe. Angesichts des Chaos auf der Balkanroute fühlen sich Länder wie Slowenien und Kroatien überfordert und rufen nach mehr europäischer Solidarität. Bei einem kurzfristig angesetzten Krisentreffen zwischen Ländern der Region und zehn EU-Staaten traten die Spannungen am Sonntag in Brüssel deutlich zutage.

 

So sieht Ungarns Ministerpräsident Viktor Orban sein Land, das sich mit Grenzzäunen zu Serbien und Kroatien abgeriegelt hat, nur noch als «Beobachter» der Flüchtlingskrise. «Ungarn liegt nicht mehr auf der Route», sagte er. Transitstaaten wie Bulgarien, Rumänien und Serbien drohen ebenfalls mit der Schließung ihrer Grenzen.

Täglich strömen Tausende über die Westbalkanroute in Richtung Österreich und Deutschland. Die meist aus dem Bürgerkriegsland Syrien stammenden Menschen kommen über die Türkei in die EU. Unter den Flüchtlingen sind auch viele Frauen und Kleinkinder – oft nur notdürftig gegen Nässe und Kälte geschützt.

«Anfang vom Ende der EU»

Sloweniens Regierungschef Miro Cerar warnte in Brüssel vor dem Ende der EU, wenn Europa die Krise nicht in den Griff bekomme: «Europa steht auf dem Spiel, wenn wir nicht alles tun, was in unserer Macht steht, um gemeinsam eine Lösung zu finden.» Sonst sei dies «der Anfang vom Ende der EU und von Europa als solches».

In den vergangenen zehn Tagen seien in seinem Land mehr als 60.000 Flüchtlinge angekommen. Dies sei «absolut unerträglich», sagte Cerar. Umgerechnet auf ein großes Land wie Deutschland entspräche dies einer halben Million Ankömmlinge in Deutschland pro Tag, rechnete er vor.

Österreichs Bundeskanzler Werner Faymann warnte vor einem Auftrieb für radikale Kräfte in Europa: «Wenn wir daran scheitern, werden die rechten Nationalisten ein leichtes Spiel haben zu erklären, dass diese Europäische Union versagt hat.» Faymann lobte zugleich ausdrücklich die Zuversicht von Kanzlerin Angela Merkel (CDU), dass die Krise zu bewältigen sei: «Diese Grundhaltung hat in dieser historischen Situation sehr geholfen.»

Asselborn hofft, «dass der Groschen fällt»

Merkel selbst sagte, bei dem Treffen gehe es «um Linderung, um vernünftiges Obdach, um Wartemöglichkeiten und Ruhemöglichkeiten für die Flüchtlinge» sowie die Aufgabenteilung der Staaten entlang der Balkanroute. Die Kanzlerin warnte allerdings: «Nicht lösen können wir das Flüchtlingsproblem insgesamt. Da bedarf es unter anderem natürlich weiterer Gespräche mit der Türkei.»

Der Luxemburger Außenminister und aktuelle EU-Ministerratsvorsitzende Jean Asselborn drückte vor dem Treffen seine Hoffnung aus, dass «der Groschen in allen Ländern vielleicht doch noch fällt». Es könne nicht sein, dass etwa die Balkan-Staaten «nur nationale Sichtweisen» anwenden. «Mit Stacheldrähten und Mauern geben wir ein fatales Bild in der Welt ab. Ich komme gerade aus New York, habe dort mit UN-General Ban Ki-moon gesprochen. Er sagte, 'Wer, wenn nicht ihr in Europa soll das Problem Migration denn in den Griff bekommen?'. Das Geld dafür ist da.»

Türkei fehlt am Verhandlungstisch

Die Türkei nahm an dem Treffen nicht teil. Griechenlands Premier Alexis Tsipras beklagte die Abwesenheit des «entscheidenden Partners» bei dem Treffen, ohne den es schwer werde, eine Lösung zu finden. Athen werde seine Zusagen erfüllen und bis Ende des Jahres fünf Registrierungszentren (Hotspots) einrichten. «Ich frage mich aber, was mit der Verantwortung der anderen Länder ist», merkte Tsipras an. Griechenland kann seit Monaten den Ansturm Zehntausender Flüchtlinge aus Syrien kaum bewältigen.

Kroatiens Regierungschef Zoran Milanovic kritisierte Griechenland als Tor für Flüchtlinge in die Europäische Union. «Warum kontrolliert Griechenland nicht sein Seegebiet zur Türkei? Ich weiß es nicht.»

(jt/dpa/L'essentiel)

Le traité transatlantique - enjeux et menaces

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Le traité transatlantique - enjeux et menaces

Michel Drac & Maurice Gendre

(au Cercle Non Conforme et E&R Lille)

lundi, 26 octobre 2015

Obama‘s Strategien im Mittleren Osten

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Obama‘s Strategien im Mittleren Osten
 
 
 
Ex: http://strategische-studien.com

US-Präsident Barack Obama verfolgt im Mittleren Osten zum gegenwärtigen Zeitpunkt eine sehr zurückhaltende Strategie, die teilweise durch diffuse Ziele bestimmt wird.[1] Dazu gehören vor allem die Beziehungen zum Iran. Während seine Administration durch den Nukleardeal mit dem Iran den engsten Verbündeten der USA im Mittleren Osten, das Königreich Saudi-Arabien, als Rivalen Teherans buchstäblich düpiert hat, unterstützen die Amerikaner bezüglich Logistik die Saudis bei ihren Angriffen auf die iranischen Verbündeten in Jemen, die Houthi. Gleichzeitig bekämpfen die USA im Irak beinahe Seite an Seite mit dem Iran und den schiitischen Milizen den Islamischen Staat (IS) durch Bombardierungen. In Syrien bombardieren die USA wiederum die Stellungen des IS, unterstützen aber durch Waffenlieferungen die sunnitische Opposition gegen den Alawiten Assad, der mit dem Iran eng verbündet ist und durch die Islamische Republik mit Beratern und Truppen unterstützt wird. Des Weiteren vermeidet offiziell die Obama-Administration jede Zusammenarbeit mit den Russen, deren Bombardierungen in Syrien primär auf die sunnitische Opposition gerichtet sind und weniger dem Islamischen Staat gelten. Bei ihren Bombardierungen in Syrien beschränken sich die USA auf den Einsatz ihrer Kampfflugzeuge und jener ihrer Alliierten gegen die Stellungen des Islamischen Staates.

Präsident Obama will unter keinen Umständen, dass die USA bei diesen Einsätzen Verluste erleiden. Deshalb werden auch keine Fliegerleitoffiziere zu den irakischen Truppen oder zu den kurdischen Verbündeten abkommandiert. Die Unterstützung der syrischen Kurden in ihrem Krieg gegen den IS wiederum liegt nicht im Interesse der Türkei, deren Luftwaffe nur sehr zurückhaltend Stellungen des IS im Irak angreift. Die Türkei selbst unterstützt die sunnitische Opposition gegen Assad. Ähnlich verhalten sich auch die Saudis, deren Kampfflugzeuge nur Ziele in Syrien angreifen. Auch Israel handelt nach dem Motto „der Feind meines Feindes ist mein Freund“, bombardiert Stellungen der schiitischen Hisbollah und auch der Armee Assads, aber nicht jene des IS.

Auf die Dauer dürften die USA mit dieser zwiespältigen und undurchsichtigen Strategie im Mittleren Osten, mit der nicht zwischen Feind und Alliierten unterschieden werden kann, scheitern. Obama oder sein Nachfolger wird in der Zukunft zwischen zwei Strategien mit eindeutigen Zielen wählen müssen. Wenn die USA weiterhin die geopolitische Lage im Mittleren Osten bestimmen wollen, müssen sie den Islamischen Staat durch einen massiven Einsatz von Bodentruppen im Irak vernichten. Mit dem Luftkrieg allein wird diese Organisation nicht besiegt werden können. Durch die Stationierung von 100‘000 bis 150‘000 Soldaten im Irak könnten die USA auch Russland zur Beendigung ihrer Unterstützung für Assad zwingen. Damit könnte vielleicht eine Voraussetzung für das Ende des Bürgerkrieges in Syrien erreicht werden.

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Die zweite Strategie wäre der totale Rückzug der USA aus dem Mittleren Osten. Angesichts der Tatsache, dass die USA nicht mehr von der Versorgung mit Erdöl aus dem Mittleren Osten abhängig sind, könnten sie einen solchen Rückzug ohne weiteres durchführen. Nach diesem Rückzug würden sie die Region sich selbst überlassen und damit den Konflikten zwischen den Regionalmächten Saudi-Arabien, Türkei und Iran sowie den Einmischungen Russlands ausliefern. Den Preis dafür würden die Bewohner Syriens und des Iraks zahlen. Europa hätte eine Nachbarregion, die sich in einem ständigen Kriegszustand befinden würde, und würde weiterhin durch Flüchtlinge aus der Region überschwemmt werden. Angesichts dieses Chaos würden die USA in der Welt aber jegliche Glaubwürdigkeit verlieren. Die Folge wäre eine Destabilisierung weiterer Regionen.

[1] Trofimov, Y., and PH. Shishkin, Clashing Agendas Fuel Rise of Islamic State, Regional rivalries in Middle East trump fighting extremist group, in: the Wall Street Journal, October 19, 2015, P. A1/A6.

Le Sahel, une poudrière prête à exploser aux portes de l'Europe

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«Le Sahel, une poudrière prête à exploser aux portes de l'Europe»

Entretien avec Serge Michaïlof

Ex: http://www.letemps.ch

Les pays de la frange méridionale du Sahara cumulent explosion démographique et panne économique. Un cocktail explosif 

A l’heure où des foules de réfugiés quittent la Syrie et l’Afghanistan pour l’Europe, un ancien directeur de la Banque mondiale, Serge Michaïlof, lance un cri d’alarme: des vagues bien plus considérables encore de migrants pourraient affluer prochainement des pays du Sahel, avertit dans un livre choc ce spécialiste du développement à l’Institut de relations internationales et stratégiques (IRIS) à Paris. Explications.


Le Temps: Vous décrivez le Sahel comme un baril de poudre prêt à exploser aux portes de l’Europe. D’où vous vient cette conviction?

Serge Michaïlof: La démographie est un facteur d’insécurité fondamental. Or, elle échappe à tout contrôle dans les pays du Sahel. Les chiffres y sont hallucinants. Un pays comme le Niger, qui avait trois millions d’habitants à l’indépendance, en compte pratiquement 20 millions aujourd’hui et, quoi qu’on fasse, en aura plus de 40 millions dans 20 ans. La situation s’avère d’autant plus dramatique que son territoire est à 92% impropre à l’agriculture et que sur les 8% restants, le secteur est en panne. Cela pose non seulement un problème alimentaire mais aussi un très grave problème social: le manque d’emplois à disposition des foules de jeunes qui arrivent sur le marché du travail. Et le cas n’est pas isolé. Le Mali, le Burkina et le Tchad connaissent le même cocktail explosif de surpopulation rurale et d’absence de perspectives professionnelles.

- Vous comparez le Sahel à l’Afghanistan…

- Effectivement. Si la situation est aujourd’hui moins dramatique au Sahel, la région ressemble à l’Afghanistan à de nombreux égards. Comme lui, elle couve toutes sortes de fractures ethniques et religieuses, qui vont s’aggravant. Comme lui, elle souffre de la grande faiblesse de l’Etat, voire de son absence totale dans certaines zones reculées. Comme lui, enfin, elle possède un voisinage dangereux, entre un sud libyen sans foi ni loi et un nord nigérian sous l’influence des djihadistes de Boko Haram. Et ce sur fond de propagande islamiste radicale, de multiplication des groupes armés et de développement de tous les trafics.

 

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- Quelles conséquences les malheurs du Sahel peuvent-ils avoir sur les pays avoisinants?

- La crise actuelle ressemble à un cancer. Il existe divers foyers cancéreux dans la région, du nord du Mali au nord du Nigéria. Et ces foyers développent des métastases sur leur pourtour. Les pays du Sahel ont été les premiers touchés mais la montée de l’insécurité ne peut qu’affecter tôt ou tard les pays du golfe de Guinée. D’autant que ces Etats sont fragiles. Preuve en est le très riche Nigeria, tenu en échec pendant trois ans par les djihadistes de Boko Haram.

- Et sur l’Europe? Quels effets attendez-vous?

- De nombreux jeunes Sahéliens vont être tentés par l’émigration. Comme ils retrouveront au bord du golfe de Guinée et en Afrique du Nord les problèmes d’explosion démographique et de sous-emploi qui les ont poussés à partir, nombre d’entre eux devraient pousser tout naturellement plus loin, jusqu’en Europe. Et là, gare à la vague! Quand on voit l’émoi provoqué par la déstabilisation de la Libye et de la Syrie, deux pays qui totalisent moins de 30 millions d’habitants, on a de la peine à imaginer les réactions que pourrait provoquer la décomposition du coeur du Sahel francophone, une région qui compte près de 70 millions d’habitants aujourd’hui et en aura quelque 200 millions en 2050. Cela n’est pas pour ces toutes prochaines années. Mais les évolutions démographiques vont devenir dramatiques dans 8 à 15 ans.

- Comment expliquez-vous que les gouvernements des pays sahéliens ne parviennent pas à mieux contrôler la situation?

- Les élites sahéliennes font ce qu’elles peuvent. Mais dans des pays souffrant régulièrement de déficit alimentaire, elles sont submergées en permanence par mille requêtes urgentes. Et puis, elles disposent de maigres ressources financières qu’elles se sentent obligées de consacrer en bonne partie au maintien d’un minimum de sécurité. Il ne leur reste dès lors presque plus d’argent à affecter au développement, un secteur où elles dépendent largement de l’aide extérieure. Or, les donateurs étrangers financent ce qu’il leur plaît, comme il leur plaît, quand il leur plaît.

- Quelle aide la communauté internationale peut-elle apporter aux pays du Sahel?

- L’expérience afghane a apporté divers enseignements, qui peuvent s’avérer utiles en Afrique. Elle s’est caractérisée par un engagement militaire et financier considérable qui a débouché sur un fiasco politique, économique et militaire. La première leçon à en tirer est que l’emploi prolongé d’armées étrangères n’a aucune chance d’assurer la sécurité, parce que de telles troupes sont rapidement perçues comme des forces d’occupation. Il est par conséquent impératif de renforcer les armées locales et, au-delà, tout l’appareil «régalien», soit la gendarmerie, l’administration territoriale, la justice, etc. Les efforts consentis dans ce domaine au Sahel sont très insuffisants.

La deuxième leçon est que l’aide internationale finit souvent par faire partie du problème, parce qu’elle se focalise sur les problèmes qui plaisent aux décideurs politiques et aux opinions publiques des pays donateurs au lieu de répondre aux besoins des populations locales. Des besoins qui sont d’abord le développement rural et le renforcement de l’appareil d’Etat.

 

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- Le Mali et le Nigéria ont connu des percées djihadistes spectaculaires ces dernières années. Où en sont-ils aujourd’hui?

- Le cancer connaît des périodes de rémission. C’est ce qui arrive en ce moment dans l’un et l’autre cas. Au Mali, les djihadistes ont subi une grave défaite mais ils sont toujours là. On doit s’attendre à ce qu’ils changent de stratégie et qu’ils s’en prennent à l’avenir à des régions plus peuplées, où l’aviation et l’artillerie françaises auront plus de mal à intervenir. Au Nigeria, l’étroite collaboration de plusieurs armées africaines paraît en mesure de briser l’appareil militaire structuré de Boko Haram, ces blindés,ces pick-up équipés de canons de 20 mm et ces unités de plusieurs centaines, voire de plusieurs milliers d’hommes que l’organisation a pu aligner ces dernières années. Mais là aussi, le mouvement ne disparaîtra pas pour autant. Ses membres vont se disperser dans la nature, notamment au Niger, et continuer à sévir sous d’autres formes. Et allez empêcher des fillettes de tuer des dizaines de personnes en se faisant exploser sur des places de marché! Le problème sera d’autant plus difficile à régler qu’il est économique avant d’être militaire. Cela signifie que sa solution sera longue à mettre en oeuvre.

«Africanistan - L’Afrique en crise va-t-elle se retrouver dans nos banlieues?», Serge Michaïlof, édit. Fayard, 2015, 366 pages.

 

dimanche, 25 octobre 2015

The Cost Germany Is Paying For Washington’s Wars

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The Cost Germany Is Paying For Washington’s Wars

I am unable to vett the accuracy of this report from a German hospital beyond the fact that this report was given over Czech TV. It coud be true or it could be anti-Muslim propaganda or some combination of the two.

Nevertheless, it is true in the sense that the sudden appearance of one million pennyless refugees in a European country, which are not of the vast size of the US and Canada, is destabilizing in many ways.

One can commiserate with the Germans and the refugees, but the Germans brought it on themselves. They permitted the Merkel government, which serves Washington and not Germany, to legitimize Washington’s illegal wars that brought Germany the refugees. The same is happening all over Europe and in the UK, where the British also sat on their butts and permitted Blair and Cameron to serve Washington instead of them.

Who is to say that the Europeans and British do not deserve the consequences of their own complicity in Washington’s gratuitous and illegal wars? Nothing more needs to be said.

The local German Press are not allowed to report on what is happening inside German Hospitals

The below letter is from a retired physician who had returned to work at a Munich area hospital where they needed an anaesthesiologist. She e-mailed the following letter to her friend in Prague. The letter has been read out on Czech TV but in Germany the issues mentioned in the letter are not being reported on by the German Press because they have been told to not write anything negative about the migrants. Merkel’s government fears that the German population will react badly to the truth, so like bad governments throughout history the truth is being suppressed. Despite this German’s are protesting in record numbers as they can see the negative effects of record migration in their own towns and cities but you will only find articles and photos describing the protests on New Media. Even international media seem to be going along with the Blackout on bad news about migrants in Germany.

“Yesterday, at the hospital we had a meeting about how the situation here and at the other Munich hospitals is unsustainable. Clinics cannot handle emergencies, so they are starting to send everything to the hospitals.

Many Muslims are refusing treatment by female staff and, we, women, are refusing to go among those animals, especially from Africa. Relations between the staff and migrants are going from bad to worse. Since last weekend, migrants going to the hospitals must be accompanied by police with K-9 units.

Many [Muslim] migrants have AIDS, syphilis, open TB and many exotic diseases that we, in Europe, do not know how to treat them. If they receive a prescription in the pharmacy, they learn they have to pay cash. This leads to unbelievable outbursts, especially when it is about drugs for the children. They abandon the children with pharmacy staff with the words: “So, cure them here yourselves!” So the police are not just guarding the clinics and hospitals, but also large pharmacies.

Truly we said openly: Where are all those who had welcomed in front of TV cameras, with signs at train stations?! Yes, for now, the border has been closed, but a million of them are already here and we will definitely not be able to get rid of them.

Until now, the number of unemployed in Germany was 2.2 million. Now it will be at least 3.5 million. Most of these people are completely unemployable. A bare minimum of them have any education. What is more, their women usually do not work at all. I estimate that one in ten is pregnant. Hundreds of thousands of them have brought along infants and little kids under six, many emaciated and neglected. If this continues and German re-opens its borders, I’m going home to the Czech Republic. Nobody can keep me here in this situation, not even double the salary than at home. I went to Germany, not to Africa or the Middle East.

Even the professor who heads our department told us how sad it makes him to see the cleaning woman, who for 800 Euros cleans every day for years, and then meets young men in the hallways who just wait with their hand outstretched, want everything for free, and when they don’t get it they throw a fit.

I really don’t need this! But I’m afraid that if I return, that at some point it will be the same in the Czech Republic. If the Germans, with their nature cannot handle this, there in Czechia it would be total chaos. Nobody who has not come in contact with them has no idea what kind of animals they are, especially the ones from Africa, and how Muslims act superior to our staff, regarding their religious accommodation.

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For now, the local hospital staff has not come down with the diseases they brought here, but, with so many hundreds of patients every day – this is just a question of time.

In a hospital near the Rhine, migrants attacked the staff with knives after they had handed over an 8-month-old on the brink of death, which they had dragged across half of Europe for three months. The child died in two days, despite having received top care at one of the best pediatric clinics in Germany. The physician had to undergo surgery and two nurses are laid up in the ICU. Nobody has been punished.

The local press is forbidden to write about it, so we know about it through email. What would have happened to a German if he had stabbed a doctor and nurses with a knife? Or if he had flung his own syphilis-infected urine into a nurse’s face and so threatened her with infection? At a minimum he’d go straight to jail and later to court. With these people – so far, nothing has happened.

And so I ask, where are all those greeters and receivers from the train stations? Sitting pretty at home, enjoying their non-profits and looking forward to more trains and their next batch of cash from acting like greeters at the stations. If it were up to me I would round up all these greeters and bring them here first to our hospital’s emergency ward, as attendants. Then, into one building with the migrants so they can look after them there themselves, without armed police, without police dogs who today are in every hospital here in Bavaria, and without medical help.

Hongrie: Paroles de médias et réalités

Conférence de Ferenc Almássy pour le Cercle Aristote :

«Hongrie: Paroles de médias et réalités»

(14 septembre 2015)


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Liens des articles présentés :
- http://www.lefigaro.fr/international/...
- http://www.lemonde.fr/europe/article/...
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- http://www.lefigaro.fr/international/...
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- http://www.lemonde.fr/europe/article/...
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- http://www.rfi.fr/europe/20140804-hon...
- http://www.slate.fr/story/95771/femme...
- http://magyarhirlap.hu/cikk/32941/Elk...
- http://www.courrierinternational.com/...
- http://www.franceinfo.fr/vie-quotidie...
- http://www.lemonde.fr/europe/article/...
- http://www.lepoint.fr/monde/migrants-...

Er zijn geen rationele argumenten pro-migratie

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Door: Miel Swillens

Ex: http://www.doorbraak.be

De arrogantie van de onmacht

Er zijn geen rationele argumenten pro-migratie

De fictie van de grenzenloze solidariteit... en onze regenten hébben Scheffer nooit gelezen

Bij het opruimen van wat oude mappen met krantenknipsels stootte ik bij toeval op een artikel uit NRC Handelsblad van januari 2004. De titel luidt: De fictie van grenzeloze solidariteit. Verzorgingsstaat en immigratieland verdragen elkaar niet. Het is van de hand van Paul Scheffer, de bekende publicist die eerder met zijn essay Het multiculturele drama een steen had geworpen in de politiek-correcte kikkerpoel in Nederland. Beide zijn nog altijd het lezen waard. Scheffer stelt de vraag waar het heen moet met de migratie in Nederland. Bij het lezen ervan gingen voortdurend belletjes aan het rinkelen, want de auteur laat maar weinig heel van de bekende pro-migratie argumenten. Ik zet dat even op een rijtje:

- Het netto profijt van de immigratie voor de economie is klein, zo niet verwaarloosbaar (conclusie van de Wetenschappelijke Raad voor het Regeringsbeleid).
- Voor de arbeidsmarkt vallen geen positieve effecten te verwachten van grootschalige immigratie (conclusie van het Centraal Plan Bureau).
- Immigratie op grote schaal is geen effectief middel om de financiële gevolgen van de vergrijzing te verlichten. Dat zou enkel mogelijk zijn indien Nederland tegen 2050 39 miljoen inwoners telt, waarna er opnieuw een vergrijzingsprobleem ontstaat.
- Verbazingwekkend is het argument dat arbeidsmigratie de illegale migratie zal tegengaan. Wat heeft de aanwerving van een Indiase computerdeskundige te maken met de beslissing van iemand in Marokko om in een gammel bootje de Straat van Gibraltar over te steken?
- De instituties in de grote steden kunnen de instroom van laaggeschoolde migranten zoals die in de afgelopen 40 jaar heeft plaatsgevonden niet of nauwelijks aan. Gegeven de problemen rond de integratie waarmee de grote steden worstelen, is het desastreus om nu opnieuw te kiezen voor een omvangrijke immigratie van laaggeschoolden.

ref160_F.jpgDat was, lezer, 2004. Wat hebben de politici in Nederland en in België met bovenstaande inzichten gedaan? Welke conclusies hebben ze daaruit getrokken? De vraag stellen is ze beantwoorden. In dit dramatische jaar 2015, nu een nooit eerder geziene volksverhuizing richting Europa op gang is gekomen, hoor je nog steeds hetzelfde versleten discours. En wordt de waarheid gemanipuleerd in de ijdele hoop bij de bevolking een zogenaamd 'draagvlak' te creëren. Zo willen politici en journalisten ons doen geloven dat die volksverhuizing uit alleen maar oorlogsvluchtelingen bestaat, uit hoogopgeleide Syriërs, dokters en ingenieurs. Terwijl het voornamelijk gaat om een eindeloze stroom jonge moslims op zoek naar een Europees eldorado - in meerderheid laagopgeleiden met daarbij een vijftien à twintig procent analfabeten.

Nu rationele argumenten pro-migratie alle geloofwaardigheid hebben verloren, komen regeerders en politici op de proppen met de mantra: die mensen komen toch, of we dat nu willen of niet, migratie valt niet te beheersen.

Hierover zei Paul Scheffer in 2004 al het volgende: 'Dit zelfverklaarde onvermogen, deze arrogantie van de onmacht, heeft vergaande gevolgen voor onze democratische cultuur. Wie op zo een vitaal gebied zichzelf niet meer bevoegd verklaart, raakt aan de wortels van het staatsburgerschap.'

De eerst taak van de staat is namelijk de bescherming van zijn burgers. Wanneer Angela Merkel verklaart dat ze de Duitse grenzen niet kan controleren of sluiten, dan betekent dat een abdicatie van de Duitse staat. Een staat zonder grenzen houdt op een staat te zijn en wordt een soort Far West. Dat die hooghartige vrouw op dit cruciale moment in de Europese geschiedenis kanselier van Duitsland is, is niets minder dan een ramp. Maar het moet ook gezegd dat die arrogantie van de onmacht de Europese Unie typeert, en in deze crisis wellicht de oorzaak van haar ondergang zal worden.

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LE PROJET CHINOIS “UNE ROUTE, UNE CEINTURE”

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LE PROJET CHINOIS “UNE ROUTE, UNE CEINTURE”
 
Des ambitions irréalistes ?

Auran Derien
Ex: http://metamag.fr

Il y a 100 ans, en mai 1915, les anglo-américains avaient chargé un paquebot de munitions, le Lusitania. Alors que les Allemands avaient rappelé que cela était prohibé par les lois de la guerre, ils le firent volontairement pour entrer en guerre avec le but final de faire mainmise sur le continent européen. En un siècle, les mêmes utilisent toujours les mêmes méthodes pour ramener l’Europe et tout l’Occident à un niveau d'inhumanité très comparable. Dans ce contexte, on a pu lire avec intérêt les nouveaux projets chinois qui pourraient ramener un peu de civilisation dans ce monde dirigé par l’association des Al Capone fanatisés. Le projet chinois s’intitule “une route, une ceinture” et l’on doit au site “Les crises”  d’en avoir publié une version française. Particulièrement surpris de l’obsession anglo-américaine pour la guerre, l’auteur chinois Qiao Liang reconnaît volontiers que l’astuce et le fanatisme de l’oligarchie occidentale l’a conduite à promouvoir deux grandes ignominies : le terrorisme aveugle et la guerre financière. Le premier devoir d’une élite consiste évidemment à bien comprendre ce que cela signifie en pratique pour ne plus en être la victime. 


Les impérialismes se ressemblent mais…


Dans les instituts d’études politiques, on enseignait que l’Impérialisme provenait d’une différence de potentiel qui incitait certaines puissances à en dominer d’autres. Le développement de la Chine répond à ce scénario traditionnel et ne surprend personne. Tant les Russes que les Chinois souhaitent en premier lieu obtenir une part du gâteau que les oligarchies anglo-américaines ont su s’approprier depuis la première guerre mondiale. Mais dans l’univers de la mafia, il ne faut pas “toucher au grisbi” surtout lorsque les chefs se considèrent comme une race élue destinée à administrer les richesses du monde à leur seul profit. Les oligarques occidentaux refusent en général de partager. Les impérialismes naissants doivent donc bâtir une stratégie de puissance originale tout en évitant une confrontation directe avec l’Occident qui ne rêve que guerres, destructions, pillages et génocides. 


L’art de la conquête s’avère primordial et l’auteur chinois propose deux pistes 

- Fixer des objectifs principaux sur terre et sur mer, puis des objectifs secondaires. La partie matérielle la plus connue est terrestre. La Chine souhaite construire des réseaux vers l’Europe, en particulier des trains à grande vitesse dont ils sont désormais les grands spécialistes, des pipelines et des oléoducs. La partie financière est encore plus fondamentale. Entre l’Internet et les échanges en ligne, le rôle de la monnaie américaine doit diminuer inexorablement. Les sites chinois permettent déjà des paiements sans utiliser de dollar. La lutte principale réside pour eux comme pour nous tous dans la libération de l’esclavage monétaire.


- Aider les fanatiques qui dominent l’Amérique à scier les branches sur lesquelles ils sont assis : l’innovation dans l’internet, les bases de données, les nuages ne doivent pas être monopolisés par les gangs anglo-américains et leurs serviteurs européens. La Chine se considère comme étant sur la même ligne de départ pour ces nouvelles technologies et entend progresser au même rythme pour éviter la dépendance. Surtout, ses élites apprennent à décrypter les pièges habituels des voyous de la finance car ils ne veulent pas demeurer niais et bêtes comme les européens face à leurs bourreaux. Qiao Liang détaille la guerre financière, observant le phénomène de l’accordéon. La finance anglo-américaine gonfle des créances puis les dégonfle. Il remarque avec subtilité que le dégonflement suit une crise organisée par l’oligarchie. Elle détruit les pays qui en sont victimes et enrichit Wall street et ses diverses activités financières car il n’y a désormais rien d’autre aux États-Unis en dehors de la finance. Il est fondamental pour les criminels en col blanc de contrôler les fluctuations de tous les marchés monétaires et financiers car sans cela ils ne peuvent plus maintenir leur niveau de vie et s’appauvrissent. Les crises sont fondamentales pour remplir les poches des employés de la finance et toute la politique occidentale vise à les provoquer à intervalle régulier. 


Sauf grain de sable, l’empire du néant va durer


Pierre Leconte, qui appartient à la tradition libérale autrichienne, propose sur son Forum de se dépouiller de toute illusion sur l’évolution à court terme du programme de terreur et de destruction massive piloté par le pouvoir. 


Comme libéral, Leconte défend deux thèses pour lesquelles on peut être en désaccord: la création monétaire à partir du métal précieux; la concurrence des monnaies. Par contre, nous sommes tout à fait convaincus du bien-fondé des réformes qu’il propose pour soulager les misères des populations victimes des néantologues financiers: casser les monopoles de la finance car ils font régner la terreur sur les hommes politiques; supprimer le FMI qui est un appareil prédateur; interdire l’escroquerie du grand marché transatlantique; sanctionner la publicité mensongère sur les actifs financiers; éliminer les armes de destruction massive que sont les marchés à terme. Quand aux USA, leur ressemblance avec l’ex-Union Soviétique est désormais frappante: le Plunge Protection Team est la main très visible chargée de manipuler les marchés. Pour construire cet autre monde, le chinois Qiao Liang se berce d’illusions sur son pays. Le dollar va rester encore longtemps la principale monnaie malgré le système de destruction massive qui le contrôle, le produit, l’agite. La chute d’un empire monétaire prend du temps. Il en sera de même à propos des organisations terroristes manipulées, contrôlées, entretenues par l’axe de l’inhumanité. Elles ne permettront ni à la Chine ni à la Russie de faire chuter l’horreur vétérotestamentaire. Il faudra des résistances multiples, des refus d’obéissance systématiques, pour que l’inhumanité retourne dans son lit… Sauf si, à la manière du grain de sable, divers phénomènes imprévus (épidémies?, aveuglements? …) favorisaient la dislocation des réseaux de la haine et de la corruption.


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samedi, 24 octobre 2015

Le terrorisme de synthèse

Orage d'acier #5:

"Le terrorisme de synthèse"

Cette semaine et après quelques ratés, Orages d'acier vous propose un aperçu sur une question qui suscité moults débats : le terrorisme de synthèse. L'émission sera retransmise sur Kebeka liberata ce soir et demain matin à 9h00 ainsi qu'en podcast sur MZ mardi prochain.

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Pour écouter:

http://cerclenonconforme.hautetfort.com/archive/2015/10/18/orange-d-acier-5-le-terrorisme-de-synthese-5702862.html

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Asia Central, región geoestratégica

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Asia Central, región geoestratégica

Muchas veces la división del territorio mundial en continentes no es suficiente para realizar estudios detallados de ciertas zonas del Planeta. Por eso, el mundo se divide en varias regiones o subregiones, aceptadas y diferenciadas por la Organización de las Naciones Unidas (ONU).

Una de estas regiones del mundo es la zona de Asia Central. Localizada entre el Mar Caspio y la frontera oeste de China, esta región, antiguamente conocida como el Turkestán, está formada actualmente por cinco repúblicas ex-soviéticas: Kazajistán, Kirguizistán, Tayikistán, Turkmenistán y Uzbekistán.

Geografía física

Al norte de Irán, Afganistán y Pakistán se encuentran los países del Asia Central, una extensa región de más de 4 millones de kilómetros cuadrados. Los “Cinco -stán” se pueden dividir en dos grupos: los llanos y los montañosos. Mientras que Kazajistán, Uzbekistán y Turkmenistán son extensas llanuras, Kirguizistán y Tayikistán son dos pequeños países montañosos.

Los tres primeros países tienen una superficie mucho mayor y deben su planitud a la gran Meseta de Ustyurt, de 200.000 kilómetros cuadrados. En esta zona el clima es árido y el suelo rocoso, siendo la altitud media de 150m. Tradicionalmente, la población de los alrededor de Ustyurt se ha dedicado a actividades relacionadas con el pastoreo, con rebaños de cabras, ovejas y camellos, sin llegar a asentarse definitivamente en ningún lugar.

National_emblem_of_KyrgyzstanPor otro lado, Kirguizistán y Tayikistán, mucho más pequeños, son dos países rodeados por importantes cordilleras montañosas. En el caso de Kirguizistán, el escudo del esta ex-república soviética simboliza el relieve que predomina en el país. Es en ocasiones llamado la “Suiza de Asia Central”, debido a que la región montañosa de Tian Shan cubre el 80% del territorio.

Tayikistán no es menos montañoso, ya que a las montañas del Tian Shan se une la cordillera del Pamir, lo cual hace que más del 50% de la superficie de este país se encuentre por encima de los 3.000 metros.

Las cordilleras de Tian Shan y del Pamir son dos de los relieves más importantes del mundo, junto con los Himalayas, las Montañas Rocosas y los Andes. Esta región del mundo está bajo la influencia de grandes relieves montañosos, lo cual hace que Asia Central sea un lugar inhóspito y de difícil acceso.

Aun así, en Kirguizistán y Tayikistán encontramos también tierras bajas y valles, donde se encuentran la mayoría de ciudades y donde se concentra la actividad económica. En en el noroeste de Tayikistán se encuentra el Valle de Ferghana, la zona más fértil de todo Asia Central.

Aral_mapLa región de Asia Central es atravesada por dos importantes ríos: el Syr Darya por el norte y el Amu Darya por el sur.

El río Syr Darya nace en las montañas de Tian Shan, mientras que el Amu Darya nace en la Cordillera del Pamir. Ambos llegan hasta el Mar de Aral y suponen la principal fuente de agua de la región.

El clima de Asia Central está marcado por una continentalidad extrema, que limita las posibilidades de explotación de la tierra y de asentamiento de la población. Con excepción de algunas zonas, como el ya mencionado Valle de Ferghana (compartido por Uzbekistán, Kirguizistán y Tayikistán) con una tierra fértil, una buena provisión de agua y un alta densidad de población.

El resto de Asia Central se distingue por paisajes desérticos, desde el desierto de arena de Turkmenistán que forma parte de la depresión aralo-caspiana, hasta las herbosas estepas de Kazajstán que anticipan Mongolia, y por paisajes montañosos, como los que ofrecen las cordilleras Pamir y Tian-Shan, cadenas montañosas al norte del Himalaya.

El desierto de Karakum cubre el 80% del territorio de Turkmenistán, y el desierto de Kyzylkum una gran parte de Uzbekistán. Por otro lado, y como ya hemos dicho, el 41% de la superficie de Kirguistán y casi la mitad de la territorio de Tayikistán se encuentran a una altitud de más de 3.000 m. (fuente: casaasia.es)

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fuente del mapa: stantours.com

Geografía económica: ¿dónde se localizan los recursos?

Con casi 65 millones de habitantes, Asia Central es una región muy poco poblada. La densidad de población es de 16 habitantes por kilómetro cuadrado. Las ciudades más importantes son Almatý (1.400.000 hab.), Astaná (700.000 hab.), Taskent (2.100.000 hab.), Biskek (800.00 hab.) y Asjabad (1.000.000 hab.). Otras, como Dushanbe (Tayikistán) muestran este fantasmagórico aspecto.

800px-Киргизские_кибитки_на_реке_ЧуAl contrario que otras regiones como el Sudeste Asiático, que están superpobladas, la zona de Asia Central se ha caracterizado siempre, desde los tiempos de la Ruta de la Seda, por ser una región despoblada y utilizada principalmente como de paso.

La vida en la estepa y entre las montañas no es fácil. La mayoría de la población ha sido siempre nómada (en el dibujo de la izquierda, casas kirguizas fácilmente desmontables).

Las pocas ciudades grandes actuales, sin embargo, sí que representan centros de relativa importancia económica. Astaná se presenta como una ciudad moderna que puede llegar a ser un importante centro financiero y de negocios, líder de la región.

La población de esta región se concentra en dos zonas principalmente: el norte de Kazajstán (zona de la capital, Astaná) y el Valle de Ferghana (confluencia de Uzbekistán, Tayikistán y Kirguizistán). El Valle de Ferghana es la zona más fértil de la región de Asia Central, y allí la gente se ha podido asentar gracias a los cultivos de arroz, patatas y algodón.

Pero aunque la agricultura es la base de la economía real para las gentes que viven en el Valle de Ferghana, en esas tierras existen recursos mucho más importantes que los agrícolas. Es una zona rica en petróleo, gas y minas de jade.

En Asia Central, aunque la mayoría de la población siga subsistiendo de la actividad pastoril y agrícola, los gobiernos han comprendido que el crecimiento económico y el desarrollo se basan en su capacidad para exportar materias primas. En otras palabras, con un rebaño de cabras uno puede vivir, pero con un yacimiento de gas uno puede hacerse millonario.

Por eso mismo los gobiernos de Asia Central quieren desmarcarse de la tradicional imagen de nómadas y agricultores, para pasar a ser potenciales exportadores de importancia mundial.

En relación al petróleo y el gas, son los países más cercanos al Mar Caspio los que se benefician de los yacimientos. Las reservas de petróleo de Asia Central se estiman en 50.000 millones de barriles. Kazajstán tiene el 3,2% de las reservas petrolíferas del mundo, y Turkmenistán el 8,7% de las reservas de gas.

TABLA: Países por reservas probadas de gas natural (Wikipedia)

TABLA: Países por reservas probadas de petróleo (Wikipedia)

Pero no sólo es importante el hecho de tener materias primas, sino también tener la posibilidad de moverlas y exportarlas. Y los países de Asia Central están sabiendo hacerlo. Por ejemplo, en Kazajstán, los importantes yacimientos de Kashagan (petróleo) y Karachaganak (gas), están conectados mediante oleoductos y gasoductos con Rusia, a través del Caspian Pipeline Consortium, un consorcio entre varias empresas privadas y públicas para la gestión de dicha ruta entre Kazajstán y Rusia. En 2008 se movilizaron 35 millones de toneladas de petróleo.

En el siguiente epígrafe analizaremos las distintas rutas que siguen oleoductos y gasoductos desde Asia Central hacia el resto del continente.

Las potencias tradicionales (Reino Unido, Francia, Alemania, Estados Unidos…) están dejando paso a las potencias regionales en el control de los recursos de Asia Central. De esta forma, los gobiernos ruso y chino, junto a los de Kazajstán, Turkmenistán y Uzbekistán, están realizando el reparto de los yacimientos en el entorno del Mar Caspio. De forma que son los países de la región los que explotan y exportan las materias.

NOTICIA: La inglesa BP vende a la rusa Lukoil su participación en el yacimiento kazako de Tenguiz

Por otro lado, a parte de gas y petróleo, la zona de Asia Central es rica en recursos minerales. Como vimos en el artículo Minerales codiciados, Kazajistán es un país emergente en la exportación de estas materias primas. Dispone del 30% de las reservas mundiales de mineral de cromo, el 25% del manganeso y el 10% del hierro. Además, Kazajstán es el tercer productor mundial de titanio y el mayor productor de uranio del mundo.

INTERESANTE: El uranio en Kazajstán: Industria atómica (Invest in Kazahstán)

En el siguiente documento (hacer click aquí) el gobierno de Uzbekistán hace una llamada a inversores japoneses para que se adentren en la industria de la minería. El documento (una presentación powerpoint) es toda una publicidad del país, que se ofrece como gran socio comercial y como un lugar perfecto para desarrollar proyectos empresariales.

De la misma forma, Kirguizistán está realizando una reforma de la industria minera y en el año 2012 concedió más de 500 licencias a empresas para explotar sus recursos mineros.

NOTICIA: Kirguizistán promueve la reforma de la industria minera (Ministerio de Economía y Competitividad, Gobierno de España)

Todos estos recursos naturales suponen grandes oportunidades de negocio en Asia Central. La riqueza que ha llegado a países como Kazajstán al convertirse en exportadores de materias primas ha permitido que se desarrollen todo tipo de proyectos punteros y modernos.

También se puede observar el progreso y la modernización en fotos de la ciudad de Astaná, una ciudad que está siendo construida de nuevo, con arquitectura futurista gracias al dinero obtenido por la exportación de gas, petróleo y minerales.

Gracias a este redescubrimiento de Asia Central, han aparecido nuevas empresas que se localizan allí y realizan no sólo tareas de explotación de recursos, sino que se adentran en el sector terciario y algunas han aparecido como empresas de servicios, como la del siguiente caso:

INTERESANTE: La empresa Manuchar se encarga de asistir a los fabricantes de materias primas del Este a comercializar sus productos en Occidente, al mismo tiempo que ayuda a los fabricantes orientales a conseguir los materiales necesarios para poder desarrollar su actividad empresarial. Es una empresa que ofrece servicios desde el principio hasta el final de cada transacción e informa sobre las tendencias de mercado en la zona en cuestión. (web: www.manuchar.com)

Como hemos dicho, los de Asia Central son países que se han dado cuenta de la riqueza que tienen bajo su tierra, y están encantados con el libre comercio y la economía de mercado que predominan en el mundo. Tienen la oportunidad de establecer importantes lazos comerciales y no van a desaprovechar la oportunidad. Como muestra, esta carta redactada por el Ministerio de Petróleo, Gas y Recursos Minerales de Turkmenistán: abrir pdf aquí. Dice textualmente: “The aim of this event is to provide the Asian business community with a better insight into the wealth of investment opportunities available in Turkmenistan’s oil and gas sector, and to both reinforce and establish new business relationships between Turkmenistan and other countries.” Es decir, que el gobierno de Turkmenistán ofrece a empresas de otros países a que acudan a invertir en el sector del petróleo y del gas.

KAZAKHSTAN-ASTANA-AREALFotografía: vista de Astaná, la moderna capital de Kazajstán

Posición geoestratégica en el conjunto de Eurasia

Recogiendo el testigo de la época de la Ruta de la Seda, cuando el Turkestán era una importante zona de paso que comunicaba Europa con China, actualmente Asia Central sigue siendo un punto geoestratégico por su localización en el conjunto del continente euroasiático. Pero no sólo es una cuestión geográfica, sino también económica, ya que Asia Central se redescubrió en el S.XX como una prominente región en cuanto a las materias primas.

Como hemos visto en el anterior subapartado sobre Geografía Económica, bajo el suelo de Asia Central se encuentran millones de metros cúbicos de gas y petróleo, así como innumerables recursos minerales. Pero lo que vamos a analizar ahora es la ventaja de la localización geográfica.

Eduardo Olier, en su libro Geoeconomía: las claves de la economía global (2012), resume el contexto geoestratégico de Asia Central de la siguiente manera:

“En este complejo escenario, las rutas energéticas del área se presentan como un elemento geoeconómico esencial. Primero, hacia el Norte, favoreciendo a Rusia. En segundo lugar, hacia el Oeste, ruta pretendida por Azerbaiyán que favorece los intereses de Estados Unidos, Turquía e, incluso, Georgia, para facilitar el tráfico con Europa. Tercero, la ruta Sur, más viable económicamente que, sin embargo, pone a Irán en el eje estratégico y por lo tanto dificulta los intereses americanos. Cuarto, la ruta Este hacia China, una costosísima infraestructura que sólo en Kazajstán deberá atravesar 2000 kilómetros. Y, finalmente, la posibilidad de atravesar Afganistán por el Sudeste para llegar a Pakistán y la India. Un complejo escenario de intereses geopolíticos que convertirá esta zona en una de las más sensibles del planeta en los próximos años.”

Al ser una zona de paso y que conecta los mundos Occidental y Oriental, Asia Central está repleta de puntos estratégicos. La mayoría de ellos son pasos o corredores entre las montañas, que permiten llegar desde las llanuras de Asia Central hasta países importantes como Pakistán, China o India, donde el desenfrenado crecimiento económico requiere abastecerse de las materias primas que los países de Asia Central les pueden proveer.

Los principales pasos que conectan Asia Central

El Paso de Torugart, en las montañas Tian Shan, une la Provincia de Naryn (Kirguizistán) con la enorme región de Xinjiang, la más grande de China. Es un paso importante porque constituye la ruta principal para conectar los países de Asia Central con China.

Otra localización importante es el Paso de Khunjerab, un alto paso de montaña a 4.700m, en la cordillera del Karakorum, estratégicamente situado en la frontera norte de Pakistán con China. Es el cruce internacional de frontera pavimentada más alto en el mundo, además de ser el punto más alto de la famosa carretera del Karakorum, que une la ciudad de Kashgar (China) con Islamabad (capital pakistaní).

800px-Afghanistan_18El norte de Afghanistán, que también se puede incluir en la región geográfica de Asia Central, es una zona de importancia geoestratégica, ya que este país está, desde 2001, ocupado por tropas estadounidenses y de otros países. Afghanistán es un país en guerra.

Aunque las principales campañas militares se están desarrollando en el sur y en el este del país, controlar los pasos fronterizos del norte es un objetivo estratégico.

En la fotografía de la derecha se puede observar un tanque, símbolo de la presencia militar en la zona, y al fondo la gran cordillera del Hindu Kush, que domina la mitad norte de Afghanistán.

El Corredor de Wakhan es uno de los lugares geoestratégicos más importantes de Asia Central. Situado al noreste de Afghanistán, se encuentra en la Cordillera del Pamir, haciendo frontera con Tayikistán al norte, China al este y Pakistán al sur. Este corredor fue abierto por el Imperio Británico a finales del S.XIX para impedir que Rusia llegara a la India durante el Gran Juego.

También entre Afghanistán y Pakistán se encuentra el importante Paso de Khyber, uno de los pasos más antiguos de la historia, que ya era utilizado en la época de la Ruta de la Seda. Situado en la parte noroeste de las montañas Safēd Kōh, es una ruta comercial entre Asia Central y el Subcontinente Indio, además de una localización militar estratégica.

Geoestrategia energética: petróleo y gas

En el mapa Asia Central: una posición geoestratégica se observa de manera simplificada las cuatro direcciones principales que siguen las exportaciones desde Asia Central. Aunque hay importantes socios comerciales en Europa, el Golfo Pérsico y la India, el mayor receptor de minerales, gas y petróleo está siendo el gigante asiático, China.

Las proyecciones indican que en un futuro más cercano que lejano China consumirá 7 millones de barriles de petróleo al día. Necesitará abastecerse no sólo de Arabia Saudí y de Irán. Asia Central es y será cada vez más un socio exportador para China.

AsiaCentralMapaEn esta región, las reservas de petróleo y gas suelen estar en el entorno del Mar Caspio, de forma que los pequeños Kirguizistán y Tayikistán no se benefician de estos recursos. Desde Asia Central parten varios oleoductos y gasoductos en todas direcciones.

Por ejemplo en 2005 se inauguró un oleoducto de 1000km entre las ciudades de Atasu (Kazajstán) y Alashankou (China).

Otro oleoducto une los campos petrolíferos de Tenguiz (Kazajstán) con el puerto ruso de Novorosslysk, através del Mar Negro.

También existen gasoductos que unen los yacimientos de la costa este del Mar Caspio con el Mar Mediterráneo, a través de Rusia, Azerbaiján y Turquía.

Esto pone de manifiesto que, aunque no tengan salida al mar y estén situados en zonas remotas, los países de Asia Central se mantienen vivos y activos en el mercado internacional de exportaciones debido a las buenas comunicaciones que se han desarrollado gracias a la inversión de países poderosos como China o Rusia, que ayudan a que las materias primas consigan llegar desde Asia Central hasta Europa, la India y China.

MUY INTERESANTE: Las rutas del petróleo en Asia Central (Real Instituto Elcano)

Además del petróleo, el otro recurso que se mueve a través de tuberías por las llanuras de Asia Central, en todas direcciones, es el importantísimo gas natural, muy presente entre los yacimientos que rodean el Mar Caspio.

INTERESANTE: KazMunayGas, empresa kazaka dedicada a la exportación de gas desde Kazajstán hacia Rusia y China principalmente.

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La India también está interesada en Asia Central, tal y como muestra el proyecto Trans-Afghanistan Pipeline (TAP), que supondrá un enorme gasoducto que unirá los yacimientos del Mar Caspio con Pakistán y la India, a través de Turkmenistán y Afghanistán.

TAP-pipeline-3El proyecto TAP podría transportar 30.000 millones de metros cúbicos de gas al año, una cantidad muy importante. Este gas sería utilizado por los superpoblados y emergentes Pakistán e India, dos países que consumen cada vez más recursos.

El gasoducto trans-afghano transportará gas desde el yacimiento de Dauletabad, en Turkmenistán, hasta la ciudad india de Fazilka, en el estado de Punjab (30 millones de habitantes). Un recorrido de casi 1700km.

INTERESANTE: Turkmenistán-Afghanistán-Pakistán-India Gas Pipeline: South Asia’s Key Project

Desde el yacimiento de Dauletabad en Turkmenistán también parten otros importantes gasoductos en otras direcciones, como por ejemplo el Dauletabad-Sarakhs-Khangiran Pipeline, inaugurado en 2010, que llega hasta la ciudad de Khangiran, en Irán. Este gasoducto transporta 12.000 millones de metros cúbicos de gas cada año.

En los últimos años, Turkmenistán, poseedor del 8,7% de las reservas de gas del mundo, ha comprometido toda su exportación con tres países: Rusia, China e Irán, lo cual supone una derrota de las potencias occidentales (Estados Unidos y Europa). En la guerra geoestratégica por los recursos, se puede decir que la “batalla de Asia Central” la está ganando el bloque oriental.

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Con China realizando inversiones multimillonarias y con Irán cerrando pactos con países como Turkmenistán, queda por analizar qué movimientos está realizando Rusia.

La empresa rusa Gazprom, líder mundial en la extracción y distribución de gas, no ha tardado en ocupar una posición privilegiada en la zona de Asia Central. Actualmente controla un sistema de gasoductos que van desde Turkmenistán hasta Rusia, pasando por Uzbekistán y Kazajstán.

Esta red de gasoductos controlada por Gazprom se alimenta de los campos de gas del sudeste de Turkmenistán y de los yacimientos de la costa este del Mar Caspio. Además de llegar hasta Rusia, está planeado que los gasoductos lleguen un día hasta China.

MÁS INFORMACIÓN: Central Asia-Center gas pipeline system (Wikipedia)

Los expertos en Asia Central, Marlène Laruelle y Sébastien Peyrouse, resumen la situación de esta manera: “Se trata de países rentistas que funcionan principalmente gracias a la exportación de materias primas (petróleo, gas, algodón, uranio, oro, minerales raros…) y a la importación de productos manufacturados, principalmente de China, pero también de Europa. Situados entre Rusia, China e Irán tienen dificultades para encontrar su lugar en el contexto de la economía mundial, y se ven frenados en su globalización por un entorno geopolítico inestable y una fuerte caída del capital humano.”

MUY INTERESANTE: Asia Central en el contexto de la economía mundial

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Mapa superior: principales gasoductos y oleoductos de la región (fuente: realinstitutoelcano.org)

Las principales potencias mundiales y su relación con Asia Central

EEUU y Europa han extendido la OTAN hacia el este europeo incluyendo antiguas “democracias populares” y repúblicas soviéticas. La expansión hacia el oriente no ha parado ahí y, a partir de 2002, la OTAN ha creado los Planes de Acción de Asociación Individual (Individual Partnership Action Plans) con otras antiguas repúblicas soviéticas como Georgia, Azerbaiján, Armenia, Kazajstán y Moldavia. Por último, en el marco de la invasión de Afganistán, EEUU consiguió establecer bases militares en Kirguizistán y Uzbekistán. El mundo occidental ha movido sus piezas en una zona controlada por la URSS durante la guerra fría. (Fuente: www.historiasiglo20.org)

Como respuesta a estos movimientos de las potencias occidentales, la presencia de China en Asia Central ha aumentado considerablemente en los últimos años, lo cual ha generado ciertos recelos hacia el gigante asiático por parte de Kazajstán y Kirguizistán, que temen sobre sus posibles aspiraciones hegemónicas.

China está extendiendo su influencia económica a lo largo de su frontera de 2.800 kilómetros con Asia Central para compensar la presencia estadounidense y rusa, en una región con enormes reservas minerales y de recursos energéticos, como ya hemos visto.

NOTICIA: China expandirá su presencia en Asia Central con una inversión de $10.000 millones (Reuters)

En Asia Central se han desarrollado importantes organizaciones intergubernamentales, como la Organización de Cooperación de Shangai (OCS), una de las iniciativas de cooperación regional más prometedoras de Asia. Esta organización incluye a China, Rusia, Kirguizistán, Tayikistán y Uzbekistán. Además, otros socios son Pakistán, Irán, Mongolia e India (estos últimos tienen un estatus de observadores).

China lidera la OCS y, por tanto, las cuestiones energéticas y comerciales de la región están muy influenciadas por los intereses chinos. No es de extrañar, pues, que la mayoría de los nuevos oleoductos y gasoductos estén proyectados en dirección este, hacia territorio chino.

Aunque en la declaración fundacional de la Organización de Cooperación de Shanghai se afirma que no es una alianza hecha contra otras naciones o regiones, la mayor parte de los analistas coinciden en que uno de los objetivos principales de la OCS es hacer de contrapeso a la OTAN y a EEUU.

INTERESANTE: Página web oficial de la Organización de Cooperación de Shanghai

Además de la Organización de Cooperación de Shanghai (OCS), otros proyectos intergubernamentales se están poniendo en marcha. Por ejemplo, en 2012 el ministro de Asuntos Exteriores de la India habló de que su país iba a comenzar una política de conexión con Asia Central, con el objetivo de reforzar las relaciones políticas y económicas con países como Kazajstán o Turkmenistán, así como apoyar a las tropas internacionales en el conflicto armado de Afghanistán.

Una de las bases para la cooperación entre India y Asia Central tendrá que ver con el intercambio de materias primas por tecnología y equipamientos médicos. La India es un país puntero en los campos de la tecnología y la medicina, y Asia Central, como hemos visto, es una tierra rica en recursos naturales. La cooperación y el entendimiento entre países se apoyará en las necesidades de cada parte, para construir una importante relación comercial y política.

INTERESANTE: La importancia de Asia Central

Presencia militar en la zona de Asia Central

pipelineEstados Unidos tiene bases aéreas desplegadas por toda la región: en Uzbekistán, Kiguizistán, Tayikistán, Pakistán y, cómo no, en Afghanistán. Con Rusia vigilando desde el norte, China apretando desde el Este, e Irán atento en el Sur, la zona que rodea al Mar Caspio se convierte en un tablero de ajedrez en el que cada movimiento genera tensión en el contrincante. Hay muchos recursos en juego.

En la infografía de la derecha podemos ver una clara relación entre yacimientos petrolíferos y presencia militar. Es una zona donde convergen los intereses de las potencias tradicionales (Occidente) y las nuevas potencias emergentes (países asiáticos como India, China, Irán o Pakistán).

VER MAPA: Inestabilidad en Oriente

En Kirguizistán, Estados Unidos tiene la base de Manás, a pocos kilómetros de la capital, Bishkek. Esta base tiene el objetivo geoestratégico de vigilar la inestable zona de Afghanistán.

Por su parte Rusia también quiere mantener su influencia en la zona. Tiene en Kazajistán una base de lanzamientos espaciales en Baikonur, y está construyendo otra base de lanzamiento en Baiterek. También tiene bases en Kirguizistán y en Tayikistán.

Pero tanto Estados Unidos como Rusia están perdiendo esta guerra geoestratégica ante el poder de China, que, mediante la Organización de Shanghai, promueve sus intereses y recorta territorio a sus vecinos Tayikistán y Kirguizistán, obligándoles a firmar nuevos tratados fronterizos. China, con el poder del dinero, ha conseguido lo que Estados Unidos y Rusia no han podido con el poder militar.

NOTICIA: EEUU busca crear su mayor base militar en Asia Central (RT.es)

NOTICIA: Rusia toma medidas para no perder más terreno en Asia Central (elpais.com)

Gustavo Sierra, escribiendo para el diario argentino Clarín, hace este interesante resumen de la situación en Asia Central: (fuente: Clarín.com)

Asia Central fue escenario del “Gran Juego” que practicaron Rusia y Gran Bretaña en el siglo XIX. Ahora, vuelve a ser el terreno de una disputa aún más grande de la que participan no sólo los antiguos contrincantes sino Estados Unidos, China, In dia y las otras grandes potencias europeas.

En el centro de la disputa están las inmensas reservas petroleras y gasíferas de la región. Y para obtener ventaja en “el juego” las potencias aumentan su presencia militar en todo centroasia. En el aeropuerto de Dushanbé, la capital de Tayikistán, se puede ver una escuadrilla de modernos bombarderos franceses. No muy lejos de ahí, los ingenieros indios reconstruyen una enorme pista soviética. Los rusos mantienen aún en ese valle rodeado por las míticas montañas del Panshir una unidad de 10.000 soldados. En la vecina Kirgyzstán, sobrevuelan los KC-135 estadounidenses, los Sukhoi-27 rusos de la base cercana de Kant, y los bombarderos chinos.

Y las repúblicas “stán” (todos sus nombres tienen esa terminación) reciben presiones de todos lados. Kazajstán debe decidir si continúa sacando su petróleo por la red de oleoductos rusa o si se conecta con la nueva línea Baku-Ceyhan, recientemente construida con el apoyo de EE.UU. China compró una de las petroleras más grandes de ese país y construyó un oleoducto de 2.000 kilómetros para transportar el fluido a Beijing.

Claro que la región es un polvorín donde no para de crecer el radicalismo islámico. En particular en el valle de Fergana que cruza las fronteras de Uzbekistán, Tajikistán y Kirgyzstán. Allí es poderoso el movimiento de Hizb ut-Tahrir, que forma parte de Al Qaeda.

Pero las potencias cuando necesitan de algo o alguien no tienen reparos.Y para continuar recibiendo gas y petróleo al tiempo que mantienen a raya al radicalismo islámico, siguen apoyando a los regímenes autoritarios de la zona, desde el tadyico, Imomali Rakhmon, hasta el brutal kazako, Nursultan Nazarbayev. (fuente: Clarín.com)

MUY INTERESANTE: Geopolítica petrolera en Asia Central y en la cuenca del Mar Caspio

Tian_Shan_PanoramaFotografía: panorámica de las montañas Tian-Shan

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Juan Pérez Ventura

Autor y Director de la web 'El Orden Mundial en el S.XXI'. Graduado en Geografía por la Universidad de Zaragoza y Máster en Relaciones Internacionales Seguridad y Desarrollo por la Universitat Autònoma de Barcelona. Inquieto por comprender cómo funciona el mundo y apasionado de la divulgación de conocimiento. Además de blogger, soy un viajero incansable.

Germany Against Itself

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Germany Against Itself

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Ex: http://www.lewrockwell.com

Though American dissidents are often branded as “anti-American,” many if not most see themselves as opposed only to their government, not their nation or people. At the Occupy camps, for example, the American flag flew freely.

In Germany, however, the dissident crowd are often not just against the state, but their country and, perhaps only subconsciously, even their heritage. Many openly advocate for the dissolution of Germany. Even if this is only youthful, nihilistic posturing, it’s pervasiveness is telling.

In Leipzig, I’ve encountered this sticker several times, “NO NATION / FIGHT LAW & ORDER / NO BORDER.” All over town, there are versions of the same message, “NO ♥ FOR DEUTSCHLAND / REFUGEES WELCOME” on a bed sheet banner, “MOVE AGAINST STATE AND CAPITAL. NO PEACE WITH GERMANY!” “Germany, you lousy Piece of Shit!” “NO MAN IS ILLEGAL / RIGHT OF RESIDENCE / ANYWHERE.” Taken to its natural conclusion, a billion Chinese can move into Germany tomorrow if they so choose.

Holding a bicycle over his head, a man is ready bring it down on his already bloody victim, lying on the ground. The caption to this lovely sticker? In English, “GOOD NIGHT WHITE PRIDE.”

More astonishingly, there’s this in five-foot tall letters on an otherwise handsome building, “I ♥ VOLKSTOD!! FIGHT THE POLICE.” “Volk” is both nation and people, for no matter how borders are shifted, the nation survives through its people. Even without a homeland, Palestinians can still count themselves as a nation, for example, as long their collective identity remains. Granted, the above death wish for nation and people, I spotted in Connewitz, Leipzig’s hotbed for young radicals, or at least those who dig piercings, tattoos, dreadlocks and graffiti. Similar expressions of self-hatred are by no mean unusual in contemporary Germany, however.

Perhaps heeding the call for a more colorful Germany [bunte Deutschland], Connewitz’s malcontents have thoroughly marred their own neighborhood with messy spray paint, and even gorgeous, brand new buildings are not spared. These neo-punks are no Jean Michel Basquiat’s, that’s for sure, not that I prefer SAMO on walls instead of canvas. Just about every other part of town is also defaced, if not to the same degree.

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Punitively flattened at the end of World War II and shamed for 70 years now, many Germans seem to welcome their ongoing erasure as an unending atonement. Japan doesn’t subject itself to such self-flagellation or, for that matter, Russia, whose Red Army committed widespread atrocities on subjugated peoples. In Dresden, I saw a sticker that showed a red flag over the razed city, with this caption, “8 May 1945 / DAY OF LIBERATION / OUR THANKS GO TO ALL THE ALLIED ORGANIZATIONS, PARTISANS AND RESISTANCE FIGHTERS.” Germany had to have Nazism bombed or raped out of them, according to this thinking, so vielen dank to those who chopped her in half and deformed her until this day.

From across the Elbe, Dresden’s famous skyline seems unchanged, but close-up, you can see that most of the stones of its landmark buildings are clearly new. The damaged lesser edifices were never restored. Many are replaced by ugly, Communist-era structures. Now, it’s claimed that only 25,000 civilians were annihilated when Dresden was flattened by American and British bombers, but many people, not just Germans, think the death count must be many times higher. Still lovely, Dresden was once painted by Canaletto.

In the popular mind, Nazism is seen in a vacuum. It’s as if there was no Treaty of Versailles that bankrupted and ultimately starved Germany. It’s as if your average German is, at best, a latent Nazi whose sinister tendencies will flare up if not constantly kept in check. As is, the word “Nazi” itself is ubiquitous in Germany but, ironically, it’s bandied about most liberally by those on the left, for you can hardly walk a few blocks without encountering stickers or flyers denouncing Nazis.

In 1990, a huge Berlin march against nationalism and racism featured on its leading banner a line from Paul Celan, “Der Tod ist ein Meister aus Deutschland.” Death is a master from Germany. Nationalism is conflated with death, and that’s why all guilt-racked Germans must fight against it, but the absence of nationalism is also death. It is the drawn-out death of Germany.

A 2014 Gallup poll asked citizens of 65 countries, “Would you be willing to fight for your country?” Nations with the highest percentage saying yes were Morocco (94%), Fiji (94%), Pakistan (89%), Vietnam (89%) and Bangladesh (86%). Forty-four percent of Americans declared yes. Japan (11%) came in dead last, and Germany (18%) is third from the bottom. The two countries with the fiercest martial spirit from the last century have been pacified, and perhaps wussified, and that’s why one hears of young Japanese men who spend all day, literally, in their childhood room playing video games and looking at porn, and grown men who have cute, wide-eyed little dolls as girlfriends. Some go to brothels only to get it on with sex dolls. Obviously, men who fear real flesh and blood can’t be soldiers.

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Yes, many Germans will cheer their unwillingness to fight as welcomed proof that Nazism has been mostly purged out of them. Germany is still a purveyor of mass death, however, through its promiscuous arms sales to Israel and, more recently, Saudi Arabia and Qatar. Along with the USA, those are the countries behind the continuing butchery in Syria.

Wandering around Leipzig and Dresden, I see plenty of slogans denouncing Fascism, Nazism, sexism, antisemitism, and homophobia, but no mention of Germany’s complicity in the Syrian War. The incessant discussion in the German media about the refugee crisis also sidesteps this gross, bloody stain on the country’s conscience. Fighting its master’s war, Germany lost 54 soldiers in Afghanistan, but with its passive allegiance to Washington’s scheme against Russia and Syria, Germany is running the risk of losing so much more, perhaps even itself.

In the past week alone, we have Berlin deciding to house 3,000 refugees in Langenlohnsheim, a village of 4,000. Neither its mayor nor citizens were consulted. At a town hall meeting in Lohfelden, official Walter Lübcke told citizens that if they didn’t like the huge influx of refugees into their district, they should just leave. “Who is against the values here can always leave the country. That is the right of every good German.” This country of 80.62 million people will accept 1.5 million refugees this year, and this was decided on without any input from its citizens. Next year, who knows how many millions will be welcomed by NSA-bugged Merkel. What’s in her closet, I wonder? To protect her own career, Merkel must obey her master.

As long as you have war, you will have refugees, and since it doesn’t look like the USA, with Germany and others in tow, is about to cease causing mass chaos and carnage, this refugee crisis is just beginning. When ordinary Germans dare to challenge Berlin’s diktats, however, they risk being branded as Nazis, Rechtsextreme, braune Esoteriker, Altnazis, Pack, Dunkeldeutschland, Faschisten, Neonazis, or Neofaschisten, etc.

Just as with Germany’s self-destructive fealty to the US and Israel, there is no frank discussion here about its refugee policies. Those with questions or grievances, then, are forced to become increasingly strident as they scream from the fringe. Brushed aside and demonized, they might just become the hysterical berserkers they’re already caricatured as. Should xenophobic outbursts explode down the line, they can be traced back to this initial suppression of dialogue.

Since nationalism has become a dirty word among the German left and middle, only anti-immigration groups such as PEGIDA, LEGIDA, and KAGIDA can evoke this most basic of concepts without apologies. At an August 31st rally in Leipzig, LEGIDA invited a black African to address the crowd. Son of a Cameroonian diplomat, Ferdinand was born in Germany, and he has studied here.

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Speaking without notes, Ferdinand finished with, “In Germany one has to talk about resurrection, because the German people aren’t asleep—the German people are dead. And when you are dead, you need a ghost, some power to reanimate the corpse or resurrect it […] We want a particular force, and this force, which will cause the people to resurrect, is patriotism.

“Without patriotism you cannot accomplish anything. However, with patriotism you can develop talents [and] this hero inside of each and every one of us can be activated. With patriotism, you can move mountains. With patriotism you can move, shake lakes—because I’m a patriot. This is a matter from the heart; it has nothing to do with your head. One has to be a patriot. You Fascists, you have to be patriots. You have to love your country. That’s my message today. Thank you.”

I suspect that most contemporary Germans would dismiss Ferdinand as a raving, rightwing simpleton. Nationalism, though, is judged by Elias Canetti as a primal force that gives meaning and purpose not just to each community, each nation, but to each individual, “We can take it for granted that no member of a nation ever sees himself as alone. As soon as he is named, or names himself, something more comprehensive moves into his consciousness, a larger unit to which he feels himself to be related.”

Since no two peoples see themselves as identical, there is no universal concept of nationalism, but a “crowd symbol” that galvanizes each nation. In times of war, this self-definition becomes akin to a religion.

Regarding the Germans, Elias Canetti observes, “The crowd symbol of the Germans was the army. But the army was more than just the army; it was the marching forest. In no other modern country has the forest-feeling remained as alive as it has in Germany. The parallel rigidity of the upright trees and their density and number fill the heart of the German with a deep and mysterious delight. To this day he loves to go deep into the forest where his forefathers lived; he feels at one with the trees.

“Their orderly separation and the stress on the vertical distinguish this forest from the tropical kind where creepers grow in all directions. In tropical forests the eye loses itself in the foreground; there is a chaotic and unarticulated mass of growth, full of colour and life, which effectively precludes any sensation of order, or even of repetition. The forests of the temperate zone, on the other hand, have a conspicuous rhythm. The eye moves along lines of clearly visible trees into a uniform distance. Each individual tree is always taller than a man and goes on growing until it becomes a giant. Its steadfastness has much in common with the same virtue in a warrior. In a single tree the bark resembles a coat of mail; in a whole forest, where there are many trees of the same kind growing together, it suggests rather the uniforms of an army. For the German, without his being clearly aware of it, army and forest transfused each other in every possible way. What to others might seem the army’s dreariness and barrenness kept for the German the life and glow of the forest. He was never afraid in it; he felt protected, one amongst many others. He took the rigidity and straightness of trees for his own law.

DDD2.jpg“The boy who escaped into the forest from the confinement of home, thinking to be alone there and able to dream, actually anticipated his entry into the army. In the forest he found the others waiting for him, true, faithful, and upright as he himself wanted to be; each like every other, for each grows straight, and yet quite different in height and strength. The effect of this early forest romanticism on the German must never be underrated. He absorbed it from countless poems and songs and the forest which appears in these is often called ‘German.’

“The Englishman likes to imagine himself at sea, the German in a forest. It is impossible to express the difference of their national feeling more concisely.” [from Crowds and Power, as translated by Carol Stewart]

In 2015, this marching forest has been atomized into so many hand-wringing shrubs or graffiti-spraying haters of homeland. The tall, straight trees, though, are still extant, and their order, strength, and steadfastness can still serve as a guide to this hijacked nation.

Just steps from my apartment, there’s Friedenspark, Peace Park, and sure enough, you can march straight for half a mile between two rows of sheltering trees. Though only a mid-sized city park, it feels like a forest. Blocking out much sunlight, the arched foliage overhead shrouds strollers in a solemn, nave-like ambience. At the far end, there’s a magnificent church that commemorates the 22,000 Russians who died during the three-day Battle of Leipzig in 1813. Losing 54,000 men altogether, the alliance of Germans, Russians, and Poles defeated Napoleon’s invading army.

When I showed a young Leipziger the poll about fighting for one’s country, he pointed out that it’s the former colonies that are most willing to defend themselves. “But isn’t Germany also colonized?” I should have said. When will she regain her autonomy and sanity?

Regard sur l'actu: La géopolitique pour les Nuls

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Regard sur l'actu: La géopolitique pour les Nuls

Ex: http://cerclenonconforme.hautetfort.com

Le Nouveau Contexte Mondial pour les Nuls

Dur, dur la géopolitique... C'est ce qu'on pourrait penser à la lumière des événements récents. Pour mémoire, on nous annonce depuis des années le début de la Troisième Guerre mondiale autour de la question iranienne. Pourtant, après plus d'un an et demi de pourparler entre l'Iran et le groupe 5+1 (Etats-Unis, Russie, Chine, France, Royaume-Uni et Allemagne), le dégel entre l'Oncle Sam et la Perse 2.0 a eu lieu, y compris sur le nucléaire, et ce malgré l'hostilité des Israéliens et d'une partie du Congrès des Etats-Unis. Cet accord, qui permettra entre autre le retour de General Motors en Iran, est un des éléments qui correspond à ce que Brzezinski et ses proches nomment sur Foreign Affairs « The New Global Context » (NGC), expression utilisée à Davos 2015 et qui désigne la nouvelle ère économique qui s'ouvre. Cette nouvelle ère est également une réalité géopolitique. Les Etats-Unis, sous l'administration Obama, ont mené une politique qui se révèle différente de celle de l'administration Bush au Moyen-Orient. Une partie non négligeable de l'opinion publique reste pourtant bloquée à la politique étrangère néo-conservatrice de Bush et au NWO (New World Order), c'est à dire à la situation en 1991 à la suite de la chute de l'URSS où les Etats-Unis étaient devenus une hyperpuissance. Cette politique hégémonique, renforcée par les velléités de Bush Jr à partir du 11 septembre 2001 est arrivée à son terme. Depuis 2011 cette parenthèse se referme et ce pour plusieurs raisons.

Les Européens ont traité seuls le cas libyen (avec le désastre qu'on connaît) et ont été des acteurs majeurs des accords de Minsk dans le conflit ukrainien. De leur côté, les Etats-Unis ont revu leurs rapports avec Israël et sous traité aux Irakiens, puis aux Kurdes et aux Iraniens la lutte contre l'Etat Islamique. En 2012, les Etats-Unis ont lancé le « US « pivot » to East Asia », théorisé dès 2011 sur Foreign Policy (lire un article du Figaro). Il consiste à replacer les troupes et les forces vers l'Asie-Pacifique plutôt qu'au Moyen-Orient. Le Pacifique, l'océan qui borde la Chine, deuxième puissance économique et première puissance commerciale mondiale, mais aussi le Japon, Taïwan, les Philippines ou l'Australie est en effet un enjeu majeur pour les Etats-Unis, comme l'illustre le traité de libre-échange transpacifique. Les Etats-Unis se considèrent comme une puissance Pacifique. En revanche, les Yankees ont eu une politique très timide au Moyen-Orient. Obama sera le président qui n'aura pas mis les pieds en Israël lors de son premier mandat et qui aura permis le dégel avec l'Iran. Sur son propre continent, il aura mis fin à l'embargo avec Cuba, ce qui n'est pas vraiment anecdotique... Les Etats-Unis se perçoivent comme une puissance Pacifique et considèrent le Pacifique comme la clef du XXIeme siècle. La Russie, quant à elle, a renforcé sa politique en direction de l'Asie et du Moyen-Orient, et les BRICS se sont peu à peu renforcés même si leur puissance est relative et leur modèle économique peu enviable (voir et ). Pour faire simple : la multipolarité coïncide à mon sens avec une réorientation des préoccupations « américaines » en direction du Pacifique. Les Etats-Unis lâchent donc du lest un peu partout pour contrer la Chine, leur principal rival.

La « russophobie » pour les Nuls

Certains comme Gabriele Adinolfi ont parlé de « nouveau Yalta » dans le cas ukrainien. Il est certain que la Russie de Poutine a réussi à s'octroyer une région complète (la Crimée) et à en rendre une autre ingérable pour Kiev : le Donbass. Si certains considèrent que Poutine a échoué en Ukraine, je fais partie de ceux qui pensent qu'il a plutôt réussi. Quel pays pourrait prétendre aujourd'hui ne pas respecter des accords internationaux sur les frontières sans que cela ne suscite de réaction militaire réelle ? Quant on voit de quoi est parti 14-18, on pourrait penser qu'une telle annexion aurait pu déclencher une déflagration mondiale à une autre époque. L'embargo sur la vodka pour les uns et sur le camembert pour les autres, c'est tout de même gentillet comme réaction. Le niveau d'hystérie que manifestent certains alors que les relations internationales entre puissances sont plutôt correctes, quoi que viriles, me laisse assez pantois... Les Russes font leur retour sur la scène internationale avec l'accord, pour ne pas dire l'assentiment, des Etats-Unis. Brzezinski, malgré sa ligne anti-Kremlin, préconise d'éviter les stratégies frontales avec les Russes et de les convaincre d'agir avec les Etats-Unis pour régler les différents problèmes, dont la grave crise syrienne. Moscou est donc parvenu à s'entendre avec la coalition étatsunienne pour éviter des incidents dans la lutte contre l'Etat islamique. Ces frappes russes, qui font tant rêver les poutinôlatres ont été possibles, ne leur en déplaise, que grâce au dégel avec l'Iran, et aux discussions avec Israël, la Turquie et l'Arabie-Saoudite. Sur ce dernier point Serguei Lavrov a déclaré lors d'une rencontre avec le ministre saoudien de la défense: « Nous travaillons avec l'Arabie saoudite sur la question syrienne depuis plusieurs années. Aujourd'hui, le président a confirmé que les buts que l'Arabie saoudite et la Russie poursuivent en Syrie coïncident ». Autant dire que personne ne semble vraiment réagir aux frappes russes, pas plus les Etats-Unis, qu'Israël et la Ligue arabe... Impressionnante « russophobie » ... Plus qu'un nouveau Yalta, qui correspondrait à un partage, je dirais que les événements actuels ne font que confirmer que la multipolarité proclamée constitue plutôt une phase de mutation du mondialisme.

Ottomans et islamistes à nos portes : l'eurasisme pour les Nuls

L'armée russe revient donc aux affaires en Syrie mais cela n'est pas une nouveauté. Elle est proche de l'Etat syrien et multiplie les contacts dans la région depuis plusieurs années. Récemment un événement a suscité des réactions contrastées : l'inauguration de la Mosquée de Moscou par Poutine, accompagné du président turc Erdogan et du président de l'autorité palestinienne, Mahmoud Abbas. La mouvance nationale, pourtant si prompte à bouffer du Turc lorsqu'il s'agit de se rappeler de Lépante ou de s'indigner du meeting d'Erdogan à Strasbourg est resté très mesurée sur la présence d'Erdogan à Moscou. Comme si s'adjoindre le soutien du président turc, dont les prétentions ottomanes sont évidentes, était anecdotique lorsqu'on s'adresse aux musulmans de son pays. A ma connaissance, seul Julien Langella, dans une tribune que je considère courageuse, est monté au créneau sur ce sujet. Aymeric Chauprade, dont on connaît les sympathies pour la Russie poutinienne, fut prompt à s'indigner pour Strasbourg, où Erdogan proclamait en filigrane qu'il fallait une cinquième colonne turque dans notre Parlement, autant qu'il fut muet sur la Mosquée de Moscou. Poutine a pourtant déclaré à cette occasion que « La Russie est un pays multiconfessionnel dans lequel, je tiens à le souligner, l’islam est une des religions traditionnelles ». Récemment Novorossia.today se faisait le relais d'un article d'un certain Alexandre Artamonov, de Rossia Segodnia, nouveau pôle média officiel de la Russie pour l'international. Celui-ci déclare : « Donc il faut que la Russie renoue avec ses origines et se reconnaît un pays multiethnique et multiconfessionnel, porteur d’un message d’amitié pluriethnique et culturel basé sur les grandes religions du monde, à savoir l’orthodoxie et l’islam. » Tout un programme.

Cette politique qui place l'islam au cœur de l'identité de la Fédération de Russie n'est pas du tout incompatible avec une axe « droitier » valorisant la Patrie, la Famille et l'Armée. Encore une fois, seule la question ethnique permet de déterminer qui est sur une position identitaire européenne et qui ne l'est pas. Poutine semble avoir entamé depuis au moins 2011 un virage clairement eurasiatique, qui correspond à l'émergence de l'union économique eurasiatique et au renforcement de l'OCS (Organisation de Coopération de Shanghai). Poutine fait-il un bon calcul en s'associant avec Erdogan ? Pas sûr. Il est contraint à cette politique, car c'est probablement la seule possible pour faire passer les gazoducs et contrôler les populations musulmanes, notamment dans un Caucase toujours aussi instable. Mais d'un autre côté, la Turquie est une puissance versatile. Erdogan est embourbé dans des problèmes internes avec les élections et la rébellion kurde. Au-delà, il se verrait bien profiter d'une Europe divisée et submergée pour placer ses pions. Surtout, la politique turque vis-à-vis de la Syrie favorise le développement d'un islam fort peu « humaniste » en Syrie et en Irak qui pourrait à terme contaminer les républiques caucasiennes de la Fédération de Russie. Encore une fois, les permanences géopolitiques vont replacer les relations russo-turques et l'avenir pour toutes les populations qui en dépendent, au cœur des débats. Le génocide arménien, en arrière plan de conflit russo-turc, c'était il y a un siècle...

La bataille navale pour les Nuls

Cette redéfinition des aires d'influence est pourtant perçue par certains comme le prélude d'un conflit mondial. Pour preuve ? Les Chinois ont envoyé un porte-avion et les Etats-Unis en ont retiré un ! L'ours du Kremlin, nouveau messie cosmique, a fait fuir la marine US ! Sauf que tout cela n'est qu'un énième tissus de mensonges. Il n'y a pas plus de renfort chinois en Syrie que de débâcle US. Voila ce que nous pouvons lire au sujet du porte avion chinois sur sputniknews : « Récemment, plusieurs médias ont annoncé qu'un porte-avions chinois se dirigeait vers la base militaire de Lattaquié (dans l'ouest de la Syrie) afin de lutter contre l'EI. Cependant, ce matin la Chine a démenti cette information: "Ce ne sont que des rumeurs erronées", a déclaré à ce sujet l'expert militaire et membre de la marine chinoise Zhang Junshe cité par la presse chinoise. »

Des medias ? Une rapide recherche Google nous permet de trouver les trois premiers résultats en français à la recherche « navire chinois syrie » qui mentionnent un prétendu porte-avion chinois, il s'agit sans surprise de www.wikistrike.com , lesmoutonsenrages.fr et reseauinternational.net . Je ne sais pas combien je dois encore écrire d'article pour qu'enfin je ne trouve plus dans mon fil Facebook des camarades postant du wikistrike ou du reseauinternational... Bref. Un autre site, http://www.meretmarine.com indique entre autre que « Des sources militaires occidentales, qui surveillent en permanence les mouvements dans la région et plus particulièrement ce qui se passe en Syrie et au large de ses côtes, confirment que le Liaoning ne s’y trouve pas. » Le reste de l'article permet de se faire une idée du comique de la situation.

Mais comme une rumeur n'était pas suffisante, il en fallait une autre ! Jamais rassasié, le pro-Kremlin a besoin de nourrir ses fantasmes. Le départ de l'USS Theodore Roosevelt a été considéré entre autre sur Breizatao.com comme une défaite géostratégique pour les Etats-Unis. Sauf que... un article de CNN du 6 août 2015 indiquait que l'USS Theodore Roosevelt allait quitter le Golfe Persique en octobre pour subir des travaux de maintenance et que son successeur, l'USS Harry Truman, ne le remplacerait pas avant l'hiver. Cette manœuvre, prévue de longue date, n'a donc rien à voir avec l'offensive russe. On peut même imaginer le contraire : les Etats-Unis auraient pu changer leur fusil d'épaule suite à l'intervention russe. Mais ils ont maintenu leur plan de rotation, quitte à retirer un bâtiment à proximité de la zone de conflit et à se priver pendant deux mois d'un porte-avion et ce malgré l'offensive russe en Syrie. Au final, on pourrait penser que les Etats-Unis sont sûrement plutôt satisfaits de laisser ce nid de frelons aux Russes. Conformément au « Pivot vers l'Asie » affirmé en 2011 et acté en 2012, le Moyen-Orient est aujourd'hui une région secondaire pour les Etats-Unis. Israël pour ne citer que ce pays cherche donc de nouveaux partenaires, parmi lesquels la Russie et la Chine.

Et nous ?

Cette nouvelle ère géopolitique qui est désormais ouverte et que nous sommes peu nombreux à décrypter avec toute la distance nécessaire est source de nombreux rebondissements depuis plusieurs mois. Les positions des uns et des autres ne sont pas figées mais des tendances se dessinent. Plus que jamais, la question nous est posée de savoir comment nous positionner vis à vis des velléités turques, russes et du « Pivot vers l'Asie » des Etats-Unis ? Quelle place dans le Nouveau Contexte Global pour la France et plus généralement, pour l'Europe ?

Jean / C.N.C.

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vendredi, 23 octobre 2015

Endiguer le totalitarisme occidental

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Endiguer le totalitarisme occidental
 
Auran Derien
Ex: http://metamag.fr

Le magazine Forbes propose une compilation à l’échelle internationale de milliardaires ,actionnaires d’entreprises, sans jamais chercher à comprendre qu’il a cessé de fasciner les populations. Il nous affirme que, cette année, il a recensé 1 826 milliardaires, cumulant 7 050 milliards de dollars de capitaux et provenant de cent pays différents. Mais les journalistes du magazine nous donnent plutôt envie de rire tant ce classement est inadéquat pour comprendre le pouvoir installé en Occident.


Les différents types de capitalistes


La plupart des "riches" recensés n’ont aucune importance dans le fonctionnement du régime totalitaire Occidental. Mme Bettencourt, âgée de 92 ans, ne prend aucune décision même si toute la famille n’agit pas ainsi. Les vrais responsables sont planqués derrière des fonds financiers, des banques, le tout installé dans des paradis fiscaux. Eux seuls sèment l’inhumanité depuis le XIXème siècle. La revue Forbes cite Bernard Arnault et François Pinault parmi les milliardaires français. Ne sont-ils pas les représentants du paradigme du néant ? En 1981, ces hommes sont allés se prosterner devant les financiers de wall street, comme d’autres voyageaient à Moscou. La France mitterrandienne, dès 1983, s’est couchée devant les financiers globalitaires. La femme du défunt Président a expliqué à Paris-Match que son mari savait. Il lui a dit qu’un cartel bancaire décidait de tout et qu’il ne pouvait rien faire…..Arnault et Pinault sont entrés volontairement dans cette dialectique du maître et de l’esclave. On les fait passer pour de grands entrepreneurs alors qu’ils sont des marionnettes placées pour servir les intérêts des financiers globalitaires. 

La loi des plus crapuleux : jusqu’à quand ?


La lente évolution du monde en faveur des trafiquants transnationaux a atteint un niveau qui permet à l’oligarchie de rire de la démocratie et des élections. Le crime économique organisé contrôle les États européens. La situation privilégiée de la finance est un indice clair de l’impossibilité de réformer quoi que ce soit. Ils ont d’ailleurs décidé d’en finir avec les restes de traditions européennes afin que leur règne dure pour mille ans, en submergeant le continent de trombes ethniques venues du vaste monde. 


Les rencontres prévues à l’ONU en cette fin de mois de septembre devraient à la fois faire apparaître le poids de l’axe de l’inhumanité et l’axe de la résistance, dont la Chine et la Russie montrent la voie malgré leurs difficultés actuelles. D’un côté les criminels en col blanc de la finance avec leurs laquais politiques (les clowns des Etats européens notamment) et la cohorte de prédicateurs médiatiques. Depuis sa création, l’ONU favorise la loi de la jungle. Grâce au règne des “Al Capone associés”, la planète est devenue une immense poubelle dont les victimes sont les derniers hommes préoccupés de beauté et d’harmonie, ceux qui, avec le détachement des grands esprits, ont proposé art, architecture, musique et dont le paradigme reste la pensée polythéiste conservée dans des œuvres qui permettront peut-être un jour une nouvelle renaissance.


La guerre, obsession des raclures occidentales


Le pouvoir économique "globalitaire" n’a pas de structures légales pour agir sur le pouvoir politique. Tout est affaire de lobbying et de commissions informelles où se désignent les chargés de mission. Ce pouvoir global ne défend que les intérêts de ses membres. L’ONU, le FMI et autres institutions sont la vitrine qui assure la continuité de la main-mise mondiale des « autoproclamés ». Les véritables décisions sont prises dans le secret, face à face, comme dans toute mafia. La concentration des décideurs mondiaux à l’ONU cette fin de mois de septembre sera donc l’occasion de vérifier qui se prosterne devant qui. Espérons que la Russie et la Chine endigueront cette propagande vomitive sur les bienfaits de l’invasion de l’Europe ainsi que les coassements sur les merveilles de la crasse intellectuelle répandue par les gérants de la bigoterie capitalo-carnavalesque. 


On ne sait si la Russie et la Chine vont se décider un jour à reprendre la démarche du tribunal Russell lors de la guerre du Vietnam, lequel condamna les USA pour crime d’agression, ou encore l’initiative “world tribunal on Irak”. L’assaut des banques et autres entreprises multinationales contre les peuples et leurs États, la soumission de politiciens aux associations anglo-américaines afin de s’enrichir en assassinant leur propre peuple, …tout concourt à devoir faire passer en jugement les organisations privées responsables et coupables de conflits meurtriers. 

L’axe de la résistance : faire condamner les conspirateurs


ll importe de construire, en marge de l’ONU, une structure de mise en accusation des crimes de l’oligarchie anglo-américaine. Les guerres de destruction massive des peuples et des cultures, les agressions permanentes contre la paix et la sécurité, en Afrique, en Syrie, en Ukraine, sont dues à la pénétration des structures politiques par des entreprises multinationales qui se préoccupent principalement de s’enrichir. Les banques notamment conspirent pour s'emparer des États, violant les garanties constitutionnelles. Un petit poisson comme le Macro(-o)n en France est un bon exemple de l'individu chargé de mettre le feu au profit des institutions financières sans oublier le rôle de diverses ONG, celui d’associations parallèles à l’État qui répandent la terreur intellectuelle et favorisent la propagande belliciste. Le tout débouche sur l’éradication de civils, de villes, de régimes légitimes et la hausse de la valeur des actions pour les entreprises concernées. Le plan est parfaitement lisible et se déroule sous nos yeux. Les banques et multinationales anglo-américaines se sont emparées des États occidentaux qu’elles utilisent pour déclencher des guerres civiles où il s’agit de payer un tribut à ces firmes, ou des guerres d’agression contre des tiers innocents (ruine de pays comme la Grèce par exemple). La planète ne pourra améliorer son niveau de coopération entre peuples tant que ces responsables ne seront pas sanctionnés. Espérons que les représentants de l’axe de la résistance sauront s’engager dans cette voie dès cette année.